In viaggio per la pace

Cb Apg23, 2007
Cb Apg23, 2007

Cinquantuno caschi bianchi della comunità Papa Giovanni XXIII in partenza a giorni per 13 paesi del mondo.

26 Novembre 2008. Sono i caschi bianchi. Cinquantuno ragazzi che si preparano a partire per loro missione con il Servizio civile internazionale. Un’occasione per essere utili e conoscere il mondo. l’articolo per “Tu inviato”.

Fra due settimane saranno in Tanzania, Zambia, Cile, Bolivia, Brasile, Venezuela, Albania, Romania, Kossovo, Israele e Territori Palestinesi, Bangladesh, Russia. Ognuno con il suo bagaglio di conoscenze, ognuno con le sue aspirazioni, le sue ambizioni, il suo personale percorso di ricerca.
C’è molto realismo fra i ragazzi – dai 18 ai 28 anni – che hanno scelto di dedicare un anno della loro vita a una missione in una zona “difficile” del mondo, sfruttando la legge 64/2001 che istituisce il Servizio civile nazionale, e prevede che questo possa essere svolto all’estero. 

Il compito ufficiale dei “Caschi Bianchi” – così viene chiamato il gruppo di volontari che hanno scelto di inserirsi nel progetto “corpo civile di pace” dell’associazione Comunità Papa Giovanni XIII – è quello di “promuovere la pace, i diritti umani, lo sviluppo e la cooperazione fra i popoli”. Si occuperanno di diritti della donna, educazione, informazione alternativa, sensibilizzazione al tema dell’AIDS, agricoltura. Quello di cui sono consapevoli, tuttavia, è che non stanno partendo a “cambiare il mondo”, semmai a portare una goccia di buono in contesti difficili.
“Porto una goccia, ma so che in cambio riceverò una cascata”, prospetta S. B., 27 anni e un master in Mediazione linguistica e culturale. Tra quindici giorni sarà a Bet Sahour, Betlemme, per lavorare all’Alternative Information Center, una rete di informazione israelo-palestinese che promuove un’informazione equilibrata in un contesto dove una notizia manipolata, spiega Stella è “il primo veicolo di supporto alla guerra”.
“Emozioni, notizie, incontri, voci fuori dal coro”. In sintesi, è quello che Stella spera di portare a casa da questa esperienza, insieme all’inevitabile arricchimento culturale. “Dopo aver studiato certe cose sui libri, sento il bisogno di vedere cosa c’è dall’altra parte”, aggiunge la volontaria, il cui libro preferito del momento è “Sharon e mia suocera”, di Suad Amiry (Feltrinelli, 2003).
Aspettative condivise dai suoi compagni di avventura. “Parto per farmi coinvolgere”, spiega Marco Pezzoli, 24 anni, laureato in Scienze umane e dell’ambiente a Milano, in partenza verso lo Zambia. “Parto perché sono stufo di come ho vissuto per 24 anni: voglio sconvolgermi, non mi piace di pensare di non conoscere situazioni che ci sono in giro per il mondo. Voglio viverle sulla mia pelle”. Una volta in Zambia, Marco spera di potersi occupare di infanzia negata, prestando servizio in una delle case famiglia che l’associazione Papa Giovanni XXIII ha istituito nel corso degli anni per dare rifugio a bambini orfani e disagiati.

A motivare la partenza dei giovani volontari sembra esserci il desiderio di conoscere un’altra realtà, di entrare in contatto con un’altra cultura, ma soprattutto di vedere e sperimentare modi di vita diversi da quelli a cui siamo abituati nella quotidianità di un Paese industrializzato “tranquillo”, come l’Italia. Un “piccolo mondo dorato”, come lo definisce S., che ad alcuni può stare stretto.
“Quando inizi ad uscire dal tuo Paese e vedere realtà diverse, torni e senti che qualcosa non ti soddisfa”, spiega Daniele Bagnaresi, 26 anni, che ha già collezionato esperienze in Palestina, Siria Libano e Giordania, e questa volta si dirigerà invece in Bangladesh. “Nei miei viaggi ho visto gente che vive con niente e riesce ad essere felice comunque. Dove abito io, a Rimini, fra vita notturna, feste, e uscite con gli amici, sento una mancanza a livello spirituale”. Questa società insomma, “a livello personale non mi soddisfa più di tanto, e cerco in quello che è lontano una mia dimensione esistenziale”.

Riflessioni personali, ma aiutate anche dal contesto in cui si svolge la formazione dei Caschi Bianchi. Una formazione propedeutica al percorso di vita, piuttosto che nozionistica. “Non stiamo studiando la storia del conflitto – spiega S.- ma stiamo lavorando su noi stessi e il rapporto con gli altri, per entrare in relazione con loro in un ascolto attivo, rispettare le emozioni e diversi modi di sentire degli altri, senza avere opinioni pregresse”. Quello che manca, lo si dovrà apprendere sul campo. La paura, del resto, è sovrastata dall’entusiasmo di chi per anni ha sognato di partire per l’Africa o di studiare da vicino il conflitto in Medio Oriente. O, come sottolinea S., desidera dire a chi vive in mezzo a mille difficoltà, “io sono qui, e sono interessato a te”. L’esperienza dei Caschi Bianchi si potrà seguire attraverso il sito Antenne di Pace.

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