Caschi Bianchi Perù

Nos pilla Ocopilla (Ocopilla ci prende)

Per molti bambini la parrocchia di Ocopilla rappresenta l’unico spazio dove potersi esprimere liberamente, dove tornare a relazionarsi con i propri pari, dove dimostrare di potercela fare, nonostante il tempo “perduto”

Scritto da Francesca Baroni, Adriano Manocchi e Martina Mellini, Caschi Bianchi con FOCSIV-AUCI a Ocopilla di Huancayo

Dopo aver fatto tappa nella profonda periferia di Lima, arriva finalmente il momento di incamminarci verso la nostra destinazione finale di servizio: Huancayo, la cosiddetta Ciudad incostrastable (città irriducibile). La partenza non si prospetta delle migliori: 9 ore di viaggio, dislivello di 5000 metri, guida bizzarra dell’autista peruviano, strade tutte curve e burroni, stretti in una utilitaria zeppa di valigie. La conferma alle nostre preoccupazioni non tarda a manifestarsi: circa a metà strada veniamo abbandonati dal nostro autista di fiducia per un’avaria, il quale ci affida a un altro Schumacher delle Ande. E si riparte: tachicardia a ogni curva, dosso o sorpasso azzardato, ma finalmente si arriva a Ocopilla, il quartiere di Huancayo dove resteremo fino a giugno.

Una volta ambientati all’altitudine di 3300 mt iniziamo il nostro lavoro: il progetto prevede lo svolgimento di attività didattica di dopo scuola che la parrocchia di Ocopilla fornisce ai bambini di questo quartiere, il più povero di Huancayo, dove anche l’acqua arriva solo a giorni alterni. Dopo aver conosciuto i nostri responsabili, iniziamo i colloqui con le famiglie dei bambini che diventeranno poi nostri alunni. Tutte mamme, alcune interamente vestite di nero (per la tradizione di tenere un anno di lutto dopo la morte di un famigliare), altre con scialli coloratissimi, legati intorno alle spalle, che all’occorrenza diventano borse, coperte o fasce per neonati.

Questo momento significa per tutti e tre la presa di coscienza della realtà che stiamo andando a vivere. Già da questo incontro, infatti, oltre alle difficili storie familiari, emergono grandi difficoltà inaspritesi a causa della situazione sanitaria: l’abbandono scolastico e il lavoro minorile. Da subito ci abituiamo a storie di bambini che, non potendo seguire le lezioni a distanza per mancanza di strumenti tecnologici, sono costretti a lavorare di mattina, non frequentando la scuola da più di un anno. E in effetti per alcuni di loro sembra che il percorso scolastico, come la spensieratezza infantile, sia a tutti gli effetti sospeso. Tutto questo inserito in un contesto educativo dall’impostazione molto tradizionale, con il quale spesso ci siamo confrontati, e in cui sin dall’infanzia si è esposti a una realtà molto cruda. Perciò, per i primi quattro mesi operiamo dando supporto a un gruppo di bambini tra i 6 e i 10 anni, aiutandoli nei compiti e organizzando laboratori ricreativi di manualità e giochi linguistici.

Ed è proprio con questi bambini che vivremo i momenti migliori: tra un “Ayudame por favor! No lo sé hacer” (aiutami per favore, non lo so fare) e un “Te quiero misitaaa! Te quiero profesooor!” (ti voglio bene ragazza, ti voglio bene professore) urlato da un marciapiede all’altro nel salutarci. Per molti di loro questo è stato uno spazio dove potersi esprimere liberamente, dove poter tornare a relazionarsi con i pari, dove dimostrare, in primis a sé stessi, di potercela fare, nonostante tutto il tempo “perduto” e nonostante alcuni genitori non credano più molto nel valore dell’istruzione per i propri figli.

E così arriviamo a metà del nostro servizio civile, inondati dall’entusiasmo dei bambini e onorati della fiducia che le famiglie hanno riposto in noi, contribuendo nel nostro piccolo a costruire un futuro migliore.

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