Caschi Bianchi Serbia

Storie di matti ed altri amici

Le mille sfaccettature della guerra in un paese in cui il ricordo dei bombardamenti è ancora vivo. Una guerra che si fa condizione di vita costante degli ultimi, costretti a lottare ogni giorno per essere visti; una guerra che si traveste di indifferenza ed ignoranza. “Una guerra che può assumere tante sfumature ma, in fondo, capitolerà sempre di fronte ad un abbraccio forte”

Scritto da Eleonora Costa, Casco Bianco in servizio civile con Caritas Italiana a Šabac

I Balcani occidentali mi hanno sempre affascinata: dal punto di vista culturale, storico, geografico e politico. Quando ho accettato di passare un anno a Šabac, città solo di nome, non avrei mai pensato di conoscere così tanto la Serbia. Intendiamoci, quando ho detto ai miei amici dove mi sarei trasferita mi hanno guardata con aria interrogativa, per poi fidarsi della mia scelta. Sicuramente si sono chiesti cosa ci andassi a fare, io, con una carriera universitaria in relazioni internazionali, a lavorare in un centro diurno per persone con disagio mentale ed intellettivo nella Serbia rurale. Sono onesta: mi sono posta la stessa domanda per i primi tre mesi del mio servizio civile come casco bianco. Mi sono domandata spesso cosa c’entrasse un progetto che vuole promuovere la pace in paesi post-conflitto in Serbia, con il disagio mentale. Oggi, a distanza di nove mesi, ho trovato qualche risposta nelle persone che incontro ogni giorno. La guerra, qui, è sempre vicina. La vedo riflettersi negli occhi della mia amica Mira, quando mi racconta di quando era piccola e ha visto un aereo della NATO sganciare una bomba, piccola piccola nel cielo blu, sulla sua città natale. La vedo in Stefan, volontario 18enne al centro diurno che sta per diplomarsi alla scuola medica. Ha deciso di arruolarsi a militare, l’anno prossimo, perché “si sa che la situazione con il Kosovo è sempre in bilico”. La sento nelle parole di Dragana, che ricorda la preoccupazione della mamma quando, in Croazia, la guerra stava arrivando e il papà militare non faceva ritorno a casa. Proprio qui, in Serbia, quel paese che a lungo ho considerato come ‘colpevole’ ho capito che la storia non si può dipingere in bianco e nero.

Percepisco una guerra di tipo diverso nelle parole degli ultimi, degli utenti del centro diurno e delle persone incontrate nei campi rifugiati. Per i primi, è una linea sottile, una condizione di vita di tutti i giorni, in cui combattono per tutto: per vivere, per socializzare, per essere puliti, per mangiare, per essere accettati o accettare che, nella vita, c’è chi non ha saputo accoglierli. È la ricorrenza delle storie di solitudine ed abusi che mi sorprende. Chi se lo potrebbe immaginare che dietro a quei grandi sorrisi sdentati c’è stata una vita così difficile? Chi mai andrebbe a pensare che, per queste anime sole, io possa essere di conforto? Io, che parlo un serbo sgrammaticato e basilare; io, che quando ho messo piede per la prima volta al centro diurno ho riconsiderato seriamente le mie capacità decisionali, perché quel posto mi faceva paura. Quando ho cominciato a strappare erbacce con loro sotto il sole cuocente, quando ogni pasto insieme non era più una sofferenza, quando i balli scatenati delle feste di compleanno al ritmo della peggior musica folk serba non erano più motivo di disagio ma di gioia, quando ogni giorno lontana dal centro era come una punizione e non come un sollievo… in quel momento ho capito che il mio essere qui è importante, tanto per ‘gli utenti’ (che io chiamo, con affetto infinito, i miei matti) quanto per me. Ebbene, ho imparato che un abbraccio di conforto a quella ragazza della mia età che non si vuole lavare, il tempo speso nel fare puzzle con quel bambinone dal sorriso dolce che gli adolescenti prendono in giro sulla strada di casa, la gentilezza e la presenza valgono più di tante parole e proclami.

Sorprendentemente, gli stessi ingredienti magici di umanità si sono dimostrati efficaci nei campi rifugiati, con i bambini di Šid così come con i single man nel campo di Principovac. Non avrei mai pensato di vedere uomini 30enni che si divertono nel fare un mosaico di carta velina, o impazzire di gioia nel giocare a palla prigioniera. I sorrisi timidi delle donne che potevano finalmente mettersi lo smalto e le creme. La sorpresa nell’ascoltare le storie di chi se n’è andato di fretta da casa e forse non ci tornerà più. Ma che, nonostante tutto, ha ancora la forza di sperare e mi dice “I go Germany!”. Il dolore (mio, questa volta) di vedere che il mio amico iraniano, che vuole solo andarsene da quel campo con così tanti bambini rumorosi e selvaggi (sua descrizione) e finire la laurea in biologia, è ancora lì a due mesi dalla mia ultima visita. L’affetto profondo per quel ragazzino curdo, il più grande dei suoi fratelli che giocano in cortile, che litiga con gli altri bambini per difendere i fratellini ma che accetta il mio consiglio, proprio prima di non rivederlo più, di non essere manesco o rispondere alle provocazioni – che non ne vale mai la pena. Lo sguardo fiero di Sarwen, che annuisce triste e poi mi abbraccia, non me lo scordo più.

In Serbia come casco bianco ho finalmente capito che la guerra non è per forza sempre attiva, con bombardamenti e vittime. Può essere temporalmente passata, ma rimanere un ricordo vivido nelle menti di chi l’ha vissuta. Può essere una costante di vita, intesa come battaglia per la sopravvivenza di chi combatte contro lo stigma e l’esclusione sociali. Può essere lo scontro con la polizia, con le autorità e con l’ignoranza, cui non interessa chi sei e quale sia la tua storia, che in fondo il tuo unico problema sia stato quello di nascere nel posto sbagliato e non sei così diverso. La guerra può assumere tante sfumature ma, in fondo, capitolerà sempre di fronte ad un abbraccio forte, simbolo di accoglienza.

Foto di Eleonora Costa e Francesco Canella

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