Caschi Bianchi Senegal

PARTIRE PER TORNARE

Migrazione non è sinonimo di successo. Pensate a me, che non avevo mai conosciuto una vera povertà, con i miei studi alle spalle, non potevo aspirare a nulla di più che raccogliere pomodori a mezzo stipendio. Se siete qui è perché il vostro Paese sta investendo nella vostra educazione: non sprecatela”: Mboup continua a portare la testimonianza del suo viaggio nelle scuole senegalesi, racconta della privazione della dignità a cui vanno incontro i sans papier, condizione che mai si sarebbe aspettato dal suo viaggio in Europa. L’obiettivo del suo racconto, è rendere consapevoli dei rischi e delle opportunità di mettersi in viaggio per i più giovani, tra i quali c’è già qualcuno che ha deciso di partire.

Scritto da Maria Gatto, Casco Bianco in Servizio Civile con Caritas Italiana a Dakar

Giornata assolata a Dakar. Questa mattina abbiamo da attraversare un paio di quartieri per recarci alla scuola secondaria Collège Sacré Cœur, dove da una settimana ha preso avvio il progetto di sensibilizzazione sul tema della migrazione. Il progetto è stato voluto e avviato dalla cooperativa sociale italiana Sophia, di stanza a Roma, che da più di dieci anni agisce nelle scuole su questo tema sempre più delicato e sempre più centrale. Fermiamo un taxi tipicamente senegalese, con le variopinte decorazioni disegnate a mano sulla carrozzeria gialla e lo stencil Sante Yalla (“grazie a Dio”) sui finestrini. Sgusciamo fra scorciatoie polverose per schivare il traffico dell’ora di punta, il che si rivela quasi sempre un tentativo inutile nella caotica capitale del Senegal. Mentre appoggio la testa al sedile, rassegnandomi al sole mattutino eppure già forte che penetra dal finestrino, mi domando come facciano i tassisti a portare tanta pazienza.

Non senza qualche difficoltà di orientamento, approdiamo al Collège Sacré Cœur: si tratta di una grande scuola cattolica costituita da più edifici ed una grande corte dove i ragazzi hanno la possibilità di giocare e praticare sport, si può dire una rarità in questa città così densamente urbanizzata. Jacques Niouky, il nostro collega della Caritas diocesana locale, ci spiega come i padri della congregazione canadese Frères du Sacré Cœur abbiano avuto una grande lungimiranza quando negli anni ‘60, mentre Dakar era un decimo di come la conosciamo oggi, acquistarono un terreno così vasto a beneficio dei ragazzi di quartiere.

Ci accolgono i tre soci di Sophia che per il quarto anno portano avanti una campagna di sensibilizzazione nelle scuole del Senegal: Erik Conte, Erminia Florio e Mor Amar. Grazie alla mediazione di Mor, originario proprio di qui, la cooperativa Sophia ha declinato un progetto già da anni attivo nelle scuole italiane in una versione per i ragazzi senegalesi. In questo caso, le attività di informazione sono centrate sui rischi di un viaggio irregolare verso l’Europa, nonché sulle modalità e procedure per affrontare un viaggio in regola e in sicurezza. Un’iniziativa più che mai utile in un Paese che vede aumentare ogni anno il numero di giovani e giovanissimi che si mettono in mare sulle piccole piroghe da pescatori, imbarcazioni del tutto inappropriate all’oceano che separa le coste senegalesi da quelle spagnole delle Isole Canarie.

Oggi presenzierà alle attività di Sophia la nostra piccola delegazione in rappresentanza del P.A.R.I., il centro di ascolto per rifugiati e immigrati della Caritas diocesana di Dakar. Si tratta di Jacques Niouky, responsabile del settore ritorni volontari, Celeste d’Amico ed io, che quest’anno ci occupiamo dell’ascolto e dell’accoglienza in qualità di Caschi Bianchi. Abbiamo invitato una vecchia conoscenza del nostro centro, il sig. M. Mboup, per donare ai ragazzi la propria testimonianza di migrante in Africa e in Europa, che dopo anni intensi e non sempre facili è riuscito a tornare in Senegal grazie anche al sostegno della Caritas.

Il sig. Mboup è partito dal Senegal che era appena un ragazzo, dopo il diploma e due anni di università alla facoltà di scienze politiche. Oggi è un uomo elegante di una certa età – mi colpisce il dettaglio familiare e fragile delle mani leggermente torte da un’artrosi incipiente – ma l’energia che sprigiona dall’espressione vivace e dalla voce ferma non rende difficile immaginarsi quel ragazzo che negli anni ’90, appena uscito dalle aule universitarie, lasciò una famiglia ed una situazione mediamente agiate per andare a prendersi il suo posto nel mondo.

La sua storia si dipana attraverso la Guinea e la Sierra Leone, dove lavora per tre anni al fine di mettere da parte la somma necessaria a continuare il viaggio. All’epoca non era necessario un visto per entrare in Italia, quindi da Freetown prende l’aereo e si ritrova in poche ore e con una sola maglietta e un impermeabile leggero nell’inverno italiano. Atterrato a Fiumicino, si mette a cercare l’albergo dove ha già pagato una stanza per qualche giorno. Scoprirà presto che l’albergo esiste ma non è più in funzione e che qualcuno in Sierra Leone si è approfittato della sua fiducia. A Roma conoscerà la Caritas, che ogni sera offre una coperta e ogni mattina una colazione calda ai tanti homeless della stazione Roma Termini. “È ancora così a Termini?” chiede rivolgendosi un attimo a noi italiani. Annuiamo: purtroppo è ancora così. Inizia la sua travagliata esperienza italiana, attraverso incontri positivi e varie disavventure. Soprattutto, lo sorprende come in Italia non si possa trovare un lavoro dignitoso da sans papier. Questo è uno dei punti su cui insiste con gli studenti, che pendono dalle sue labbra: “In Europa le carte sono importanti, non come da noi. Senza un documento in regola non sei nessuno”. E ancora, guardando negli occhi i ragazzi, insiste: “Migrazione non è sinonimo di successo. Pensate a me, che non avevo mai conosciuto una vera povertà, con i miei studi alle spalle, non potevo aspirare a nulla di più che raccogliere pomodori a mezzo stipendio. Se siete qui è perché il vostro Paese sta investendo nella vostra educazione: non sprecatela”. Mboup passa sotto il caporalato in Campania, prima di cambiare Paese.

Poi la volta della Svizzera, dove impara il tedesco e dove rimarrà tre anni, poi un’altra esperienza lunga in Germania e infine l’Olanda, dove viene incarcerato in quanto immigrato irregolare. Trascorre nove mesi in un centro per l’espulsione di Rotterdam, senza conoscere il suo fine pena né cosa fare per cambiare la situazione. Una prova di nervi. La prima domanda degli studenti, alla fine del racconto, verte proprio sulle condizioni della vita da detenuto: “in prigione ti davano da mangiare?”. Mboup risponde percorrendo mentalmente la disposizione della propria celletta… dice che non c’è da lamentarsi, che nel centro di espulsione mangiava e dormiva a sufficienza, ma “il non sapere come passare il tuo tempo è la parte più dura: se non sei forte, impazzisci”. Racconta poi di coloro che venivano forzati a rientrare, senza neppure il tempo di passare da casa a prendere i propri averi. Racconta della privazione della dignità a cui vanno incontro i sans papier, condizione che mai si sarebbe aspettato dal suo viaggio in Europa.

Mboup verrà alla fine rilasciato, pur rifiutandosi di firmare un foglio di via che veniva fatto passare come obbligatorio dal funzionario, nel quale avrebbe dovuto dichiarare l’impegno a lasciare il paese entro le ventiquattr’ore successive. Tuttavia poco tempo dopo entra in contatto con la Caritas olandese, che nel 2013 lo aiuterà a rientrare volontariamente a casa e lo metterà in contatto col PARI di Dakar.

Un silenzio carico aleggia in aula, nonostante ogni classe ospiti fra i cinquanta e i sessanta alunni. I ragazzi non perdono una parola. Sono curiosi, assorbono ogni informazione. Fra i più grandi ce ne sono molti che hanno già deciso di partire, non appena avranno l’età. Spesso in accordo con la famiglia. Il dibattito che segue la testimonianza è vivace, tutti hanno da dire, anche i più piccoli. Ci sono domande più ingenue – “perché sei tornato?”, “fa tanto freddo in Italia?”, “potevi telefonare alla tua famiglia?” – e altre dirette, quasi provocatrici – “a tuo figlio consiglieresti di partire?”, “forse lui avrà più fortuna di te”. Mboup ascolta paziente, risponde a ogni singola curiosità. Traspare una certa stanchezza, eppure continua a sorridere. Quando più tardi gli chiedo se sia stancante parlare a tante classi nello stesso giorno, fa spallucce e sorridendo mi risponde che se ciò servirà a renderli più consapevoli di quanto non fosse lui alla loro età, allora ne sarà valsa la pena. Su una cosa insiste: partite se conoscete già un mestiere e un progetto preciso, oppure considerate un periodo limitato per studiare, imparare, per tornare poi in Senegal ricchi di idee da esportare – “viaggiare porta nuove idee”. Ma non tentate l’avventura alla cieca, e mai senza i documenti necessari, poiché “senza documenti non avete nessun diritto, non esistete”.

Oggi Mboup ha una famiglia e un’azienda agricola nella periferia di Dakar che vanta due dipendenti, dove dal 2013 coltiva limoni e alleva polli e ovini. Commenta: “Dopo aver perso vent’anni in Europa senza costruire niente, qui ho creato due posti di lavoro; se ognuno di voi darà lavoro a una persona, potrà dire di aver fatto tanto per il proprio Paese”.

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