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Caschi Bianchi Cile

Con gli occhi degli ultimi: Cile e disabilità

La bellezza disarmante dell’accoglienza e dell’integrazione raccontata attraverso lo sguardo di Kimberly, una ragazza che da anni vive in una Casa famiglia della Comunità Papa Giovanni a Santiago

Scritto da Marco Reyneri, Casco Bianco in Servizio Civile con la Comunità Papa Giovanni XXIII a Santiago del Cile

Ciao a tutti, mi presento: mi chiamo Kimberly, ho 26 anni e vivo a Santiago del Cile. In realtà non sto scrivendo io perché purtroppo a leggere e a scrivere non ho mai imparato. A dire il vero non sono capace neanche a parlare, a mangiare da sola e a fare molte altre cose. Molti dicono che non capisco neanche quando mi parlano, ma non è colpa mia se nessuno ha mai imparato a parlarmi nella mia lingua, fatta di urletti e onomatopee. Comunque non è che tutte queste cose non le ho mai imparate perché non le ho mai volute “studiare”, ma perché a quanto pare ho una brutta sindrome che davvero non mi aiuta! Non ho mai capito di cosa si tratti ma forse neanche quegli intelligentoni degli scienziati lo sanno bene…

Ve l’ho già detto della mia passione per la boxe? Mi diverto tantissimo a tirare diritti e fendenti ai componenti della mia piccola famiglia e ai volontari che passano il loro tempo con me! Ogni tanto si arrabbiano un pochino, ma io non lo faccio con cattiveria. In realtà io vorrei riempirli di carezze, ma la mia prima mamma non mi ha insegnato come dare una carezza quando ero piccolina. Credo che lei avesse un po’ paura di me e non mi ha mai fatto uscire molto dalla mia cameretta. Un giorno sono venuti dei signori a casa dicendo che sarei dovuta andare a vivere con un’altra famiglia, con una nuova mamma. Non ho mai capito bene perché, ma la mia prima mamma non l’ho mai più vista. Con la mia nuova mamma invece mi trovo molto bene: vivo con lei ormai da molti anni e mi conosce come le sue tasche. Pensate che ho messo su una bella pancetta, quando invece prima ero molto magra e avevo sempre molta fame! Lei invece sa cosa mi piace mangiare e mi porta a fare compere al supermercato o a fare il bagno in piscina. Diciamo che lei capisce un po’ di più le mie necessità, e anche se spesso fa molta fatica, mette i miei bisogni sempre prima di qualsiasi altra cosa. Forse alla mia prima mamma nessuno ha mai insegnato come fare tutte queste cose, ma ad ogni modo non mi sono mai sentita così compresa e ben voluta come ora! Anche io ho imparato a volerle bene come una figlia, anche se non sempre gli altri riescono a capire i miei gesti di affetto!

Purtroppo qua in Cile le persone come me, che tutti chiamano “descapacitados”, non sono considerate come tutte le altre: ci portano in scuole speciali, ci trattano diversamente, spesso ci tengono chiusi in casa. Forse un po’ si vergognano di noi o forse semplicemente non sanno come comportarsi, non sono in grado di capirci e nessuno mai li ha aiutati. I primi che ci sono venuti incontro sono i fratelli della Comunità Papa Giovanni XXIII, della quale la mia nuova mamma fa parte. Sono un grande gruppo di persone di tutto il mondo che spesso si chiamano fratelli e che hanno un motto: “vivere con gli ultimi”. Credo che sia per questo che le loro case siano sempre un viavai infinito di bambini, ragazzi, anziani e disabili, per i quali c’è sempre una camera disponibile, se non di più: un posto in famiglia… Loro ci accolgono nelle loro famiglie e ci dedicano molto del loro tempo, e io mi sento molto fortunata: tante altre persone come me non hanno avuto la mia stessa fortuna di incontrare qualcuno che li capisse. Credo che qui in Cile ci sia ancora molto lavoro da fare: bisogna che tutti imparino che io ho lo stesso valore di una qualunque altra persona e che non mi trattino più come un “essere umano di classe B”. È una cosa molto difficile, ma la Papa Giovanni ci mette tutto il suo buon impegno perché questo avvenga!

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