Brasile Corpi Civili di Pace

Terra e Pace

Tante domande, risposte da scavare in profondità.

Scritto da Eufemia Bonino, Corpo Civile di Pace con Engim – Focsiv a Ibotirama

Ci sono parole che ci accompagnano più spesso di altre, senza che ce ne accorgiamo.  In questo periodo, la mia è “Terra”.  Mi ritrovo spesso a parlare della mia terra, della terra dove sono, il Brasile, della Terra come mondo e della terra che sporca le mani, quella in cui tutto nasce e, ahimè, muore. Ci sono delle controindicazioni e delle meraviglie in ognuna di queste accezioni. Le controindicazioni le ho indagate nel tempo. Parlare di una terra, quando si tratta di confini e di culture, è sempre molto difficile per me.  Mi è capitato in passato di tacere di fronte le temibili domande da rientro a casa, dopo un anno passato dall’altra parte del mondo.

Un anno è tanto? È poco?  Sono arrivata alla conclusione che non sia niente un anno per conoscere un posto, ma di fatto non penso neanche dopo 28 anni di vita e circa 15 di pensiero critico, di conoscere la mia casa. Quindi che posso portare del mio filtro, per nulla obiettivo, se non le mie amatissime domande? Le risposte le lascio a chi le sa trovare subito in superficie. Io nel frattempo scavo, e non solo metaforicamente.

Non conosco il Brasile e purtroppo mai lo conoscerò abbastanza. Ma so che a Ibotirama, un paesino dell’entroterra di Bahia (presente il carnevale di Rio? Ecco sono a circa 1492 km, Google Maps, col suo bell’ottimismo, parla di più 20 h di macchina) ha la terra polverosa e rossiccia. La terra è dura, credetemi.  Se però ti ritrovi accanto chi la conosce, beh allora la impari a gestire.

La terra che vedo ogni giorno è quella del centro in cui lavoro, il Cacais, calpestato ogni giorno da circa 300 ragazzi e 20 adulti, più i casi eccezionali. Con molti di loro ci sporchiamo le mani. Estirpiamo erbacce, annaffiamo il giardino in fiore, l’orto appena nato, ci lasciamo andare a sfoghi antistress armati di zappe, povera terra. E loro giocano, sono seri. Si divertono, sbuffano. Puliamo il nostro angolo di mondo raccattando i rifiuti che ogni giorno molti sono abituati a lasciare lì…a terra.

Una cosa è cambiata da due mesi a questa parte: “Prof! Ma non l’ho buttata io la carta!” non lo dicono più. Non importa chi sia il responsabile, è nostro dovere far caso alle cose, rimediare subito, perché solo così si esercita la sensibilità e si è d’esempio. E poi si torna a casa stanchi, ma soddisfatti, magari loro tra qualche anno (spero). I richiami, positivi o no, alla mia terra natia mi illuminano sempre il volto, come se depennassi qualcosa che ho imparato a conoscere a primo sguardo, perché ormai è dentro di me.

Mi piacerebbe esser dipinta come la viaggiatrice con zaino in spalla, di keruachiana memoria, ma ahimè, non lo sono. Tre sono le valigie che mi sono trascinata fin qui.  Non sono nemmeno una nomade, ho una dimora fissa e mi piace pensare che c’è una scadenza che mi riporterà da dove sono venuta. Mi trovo nella via di mezzo tra quelli che devono cercare la pagina libera del passaporto e quelli che restano. Mi piace vivere un posto tanto a lungo per arrivare l’ultimo giorno e capire che non avevo capito niente. Tornarmene che ho sapientemente smantellato tutte le certezze, costruite, altrettanto sapientemente, nel tempo a disposizione. Solo così il viaggio per me acquista un senso.

L’orologio scorre e la Terra che gira è la stessa terra che sembra rimanere ferma là ad aspettare l’acqua. Da sempre una metafora che ho inciso in me.  E quindi che siamo qui, là, che abbiamo fatto percorsi diversi, che difendiamo in modo diverso la vita, beh il seme insegna sempre più che tante parole. Ci vuole impegno, cura, pazienza per crescere o far crescere bene.  Tutto il resto sono solo ornamenti, nella migliore delle ipotesi.

È faticoso? Sì, lo è. Siete stati voi? Io? Non lo so, non importa. Io ho deciso di stare da questa parte. Di passare più ore con la testa china, concentrata in qualcosa. “Ciao, piacere, sono un corpo civile di pace”.

Corpo civile di pace.  Suona bene. Quel “Corpo” richiama all’identità di un gruppo; è “Civile” e quindi si muove entro le dinamiche di una società. Ma è quel “Pace” che mi torna in mente tutti i giorni. Non è un lavoro. Non c’è un badge che ti fa marcare un orario di pace. Devi indagarti, devi capire cosa è, come si raggiunge ed esercitare questo nella vita. La pace non è solo l’opposto di guerra. È l’opposto di indifferenza, di stallo, di incomunicabilità. La pace è qualcosa di liquido ed è cosa da menti brillanti, elastiche. È un atteggiamento ed è facile insegnare agli altri cosa sia, quanto difficile è insegnarlo a se stessi. Questo anno spero che mi porterà in questa direzione.
Stare in pace è un viaggio, è un seme.

Progetto CCP “Supporto alle organizzazioni ed alla popolazione della città di Ibotirama nella lotta alle discriminazioni nei confronti dei giovani afro-discendenti”.

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