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Corpi Civili di Pace Filippine

Il sorriso di chi non ha niente

Questa è la storia di Jessica Pizaro Del Rosario, una ragazza indigena di 24 anni, nata a Kalibo, uno dei 4 capoluoghi di Panay, che a sua volta costituisce una delle 7 mila isole dell’arcipelago delle Filippine.

Scritto da Giulio La Spesa, Corpo Civile di Pace con Caritas Italiana

Jessica, appartiene ad una tra le centinaia di etnie indigene che vivono nel Paese . Lei, è figlia di José il capo della comunità degli indigeni Ati di Kalibo.

La storia della sua gente inizia più di mille anni fa, quando dei navigatori provenienti da un punto indefinito delle coste del Borneo, approdarono dopo mesi di traversata, sulle coste di quest’isola.

Qui, riuscirono a trovare un ambiente ideale per crescere e moltiplicarsi, e nel giro di poche decadi avevano già colonizzato gran parte della costa. Abili nella caccia ed ancor più nella pesca, la loro era una società florida, basata su poche regole di convivenza e su uno stile di vita nomade, nel quale intere comunità si spostavano all’unisono cercando terre fertili e dando il tempo alle terre sfruttate in precedenza di ritrovare il giusto equilibrio prima di farvi nuovamente ritorno.

Il loro stile di vita, subì un primo cambiamento circa 8 secoli fa, quando alcune navi malesi approdarono sulla costa occidentale dell’isola. A bordo, vi erano un centinaio di famiglie costrette alla fuga a seguito delle feroci repressioni nella loro terra di origine. I profughi provenivano da una realtà ben più sofisticata di quella che si trovarono di fronte, tuttavia le storie che ci furono tramandate non narrano di scontri tra le due culture. Al contrario, Gli Ati, non mostrarono né paura né alcuna esitazione nel prestare soccorso a quei marinai dispersi ed alle loro famiglie, e fu così che nacque una nuova alleanza. Ancora oggi l’alleanza tra quelle due culture viene ricordata ogni terza settimana di gennaio, durante una delle più importanti e sacre festività di tutto l’arcipelago filippino. Il famoso Ati-athian festival.

Nel corso dei secoli la festività, ha subito diversi cambiamenti e la cultura romano-cattolica importata dagli Spagnoli 300 anni orsono, ha in parte sostituito ciò che la festa rappresentava, introducendo la figura del Santo niño al fine di dare a quel rito considerato pagano, una nuova identità che potesse giustificarlo.

“È la festa del Santo niño”, spiega Jessica, “la festa di nostro signore Gesù. Però le persone che vi prendono parte si mascherano da Ati, per assomigliare ai miei antenati”. Ogni anno migliaia di turisti da tutto il mondo accorrono numerosi nella piccola città di Kalibo, per prendere parte ad una settimana di feste e danze, tingendosi la pelle di nero ed impersonificandosi nei leggendari guerrieri Ati.

“Il festival è molto divertente anche se io e la mia famiglia non partecipiamo alle sfilate in città. Generalmente vendiamo i nostri prodotti per la strada. Comunque anche nel nostro villaggio festeggiamo questa ricorrenza”.

Non disponendo dei mezzi per poter acquistare un negozio tutto loro e della necessaria licenza di vendita, le famiglie degli Ati si limitano vendere i loro prodotti ai bordi del marciapiede. Tra gli sguardi indifferenti dei turisti che neppure sono a conoscenza che i veri Ati, dei quali hanno assunto le sembianze, si trovino proprio lì, in disparte e costretti ad elemosinare pochi pesos.

“Il nome del festival si chiama ATI, ma gli Ati non sono i benvenuti”. Le persone non sanno che gli Ati vivono ancora in questa parte dell’isola, credono che gli unici rimasti siano quelli che vivono a Boracay”; “mi piacerebbe che io e la mia gente fossimo riconosciuti per le strade e magari avere uno spazio particolare durante il festival, così che tutti possano accorgersi che gli Ati vivono ancora in queste terre”.

La comunità dove vive Jessica, si trova poco fuori la piccola città di Kalibo, in un terreno preso in affitto sul finire degli anni 80’, quando le prime famiglie Ati provenienti da diverse regioni dell’isola decisero di stabilirsi in questa nuova area. L’affitto del terreno non è particolarmente caro, tuttavia l’estremo stato di povertà nel quale versano queste famiglie, fa sì che anche 300 pesos al mese rappresentino per loro una difficoltà. “Solo alcuni di noi hanno un lavoro stabile, quasi tutti gli uomini lavorano saltuariamente o aiutano le donne a vendere i prodotti in strada”. I coetanei di Jessica devono affrontare lunghi viaggi per tutta la regione per poter lavorare, ovviamente senza potersi permettere “il lusso” di prendere un bus. Le donne Ati, passano le loro giornate fabbricando a mano borse e gadget artigianali, per i quali possono impiegare fino a 6 ore di lavoro per ogni singolo prodotto e che venderanno a poco più di un euro. Crescere in questo contesto, significa non poter scegliere il proprio futuro e rimanere costantemente in balia degli eventi. Questa dura verità Jessica la porta costantemente con sé, “due anni fa ebbi un incidente in moto, e mi spezzai il braccio. Da allora vivo con una fasciatura perché non posso permettermi una operazione, costerebbe troppo”. “Non c’è giorno in cui non senta dolore, e sono già diversi mesi che nessuno mi dà un lavoro”. Da allora, Jessica è disoccupata e nessuno vuol dargli una possibilità a causa della sua disabilità, malgrado sia l’unica ragazza della comunità ad aver ottenuto un titolo di studio.

Essere un Ati al giorno d’oggi, rappresenta una difficoltà quotidiana. L’impossibilità di mandare i propri figli a scuola, di ricevere le adeguate cure mediche, di vivere la vita come un pesante macigno che ogni giorno rischia di schiacciarti, non tolgono a Jessica ed alla sua gente la forza di sorridere. “non abbiamo molto ma uniti riusciamo a resistere e quando possiamo, troviamo anche il modo per divertirci”.

“Essere un Ati significa lottare per la vita ogni giorno dell’anno, sapendo che il giorno dopo sarà ugualmente dura”, spiega Jan A. Masigon, responsabile di progetto del Diocesan Social Action Centre di Kalibo (DSAC). Il DSAC è una ONG locale, che da molti anni sostiene in diversi modi i problemi della comunità locale, compresa quella degli indigeni Ati. “Una volta tutto questo era loro, vivevano in modo semplice e non conoscevano la povertà. Alcuni indigeni filippini sono riusciti ad adattarsi al nuovo stile di vita, ma purtroppo per molti di loro questo non è accaduto e sono rimasti ai margini della società. Un esempio è quello che succede ogni anno durante l’Ati-atihan festival. Le migliaia di persone che vi partecipano si travestano da Ati, e sfilano per le strade ballando e divertendosi per una settimana, ma a nessuno di loro viene in mente di avvicinarsi interagire con un vero Ati”.

Il DSAC ha già avviato da un anno diversi progetti per aiutare gli Ati, ed in particolare, congiuntamente con l’aiuto di Caritas Italia, ha deciso di acquistare un terreno da poter regalare a questo gruppo di 30 famiglie, le quali nel luogo dove vivono attualmente non possono neppure usufruire di acqua potabile e di corrente elettrica.

“Il luogo che abbiamo scelto sarà per loro un nuovo inizio. Costruiremo case vere dotate di acqua potabile ed elettricità, gli insegneremo come coltivare la terra e vendere i propri prodotti per permettere alle famiglie di ricevere una nuova entrata, con la quale potranno far fronte alle spese necessarie per vivere in maniera dignitosa”.

In un contesto nel quale le stesse organizzazioni governative, tra cui quelle preposte alla tutela delle minoranze indigene, non riescono a fornire assistenza di alcun tipo, il lavoro di persone come Jan e del DSAC rappresenta uno spiraglio di luce in un mondo buio ed indifferente. “Abbiamo cercato di coinvolgere la National Commission for Indigenous People (NCIP)  ma dopo mesi di attesa non abbiamo ancora ricevuto loro notizie. Il sistema giuridico-politico filippino è sulla carta uno dei più moderni e progrediti al mondo in materia di riconoscimento dei diritti indigeni”, spiega Jan, esperto in materia dopo aver conseguito una laurea in Sviluppo sostenibile a Wellington, Nuova Zelanda, “ma purtroppo alle molte leggi adottate in loro favore, non corrisponde una reale applicazione di quanto espressamente previsto”. Durante gli ultimi anni si sono verificati diversi casi di omicidi di leder indigeni, che attraverso movimenti locali, si opponevano a progetti estrattivi nei loro territori . “Gli Ati di kalibo non dispongono di alcuna ricchezza, neppure di una terra di proprietà. Nel loro caso, la mancanza di aiuti è dovuta a diversi fattori tra cui razzismo, indifferenza e marginalizzazione”.

La situazione nella quale versano gli Ati non è nuova. In tutto il mondo milioni di indigeni lottano ogni anno per vedere un giorno riconosciuti i propri diritti, sanciti in numerose e sempre più affollate Dichiarazioni e Convenzioni internazionali , che fino ad oggi hanno sicuramente avuto il merito di riscrivere una trama diversa ad una storia piena di crimini, misfatti e di promesse infrante, ma che non riescono per il momento a cambiarne il finale. Una storia che inizia secoli fa con la colonizzazione e l’imposizione del modello di vita occidentale, e che tristemente continua a riprodurre i suoi effetti anche oggi.

È solo grazie all’impegno di persone come Jan e gli operatori di DSAC, che hanno deciso di dedicare le proprie vite per chi, lasciato solo è rimasto indietro, in questa autostrada chiamata vita, che vede come meta finale solamente il profitto personale.

“Vorrei che in futuro mio figlio possa andare a scuola e finire gli studi, avere una vita migliore della mia, perché nessuno dovrebbe vivere come noi.” conclude Jessica, continuando a sorridere malgrado il dolore causatole dalla frattura. Un sorriso contagioso, di chi pur non possedendo molto, non ha perso la fiducia nel domani.

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