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Caschi Bianchi Ecuador

Il nostro diritto ad essere consultati, e chi ne è stato privato: il caso Intag

Dall’Ecuador, con la resistenza dal basso alle miniere di rame nella zona di Intag, all’Italia, con il referendum sulle trivelle di domenica 17 aprile: c’è chi la possibilità di esprimere la propria opinione non solo non l’ha avuta, ma gli è stata palesemente negata con evidente volontà. Anna tra Quito e l’Amazzonia ecuadoriana, ci racconta il caso Intag.
Anna attualmente è volontaria FOCSIV in SCN all’estero presso l’Unión de Afectados por Chevron-Texaco (UDAPT) a Quito e nell’Amazzonia ecuadoriana. Il progetto riguarda la battaglia sociale e legale che contrappone la compagnia petrolifera Chevron-Texaco e le 30.000 vittime della contaminazione da essa causata in Ecuador. Come giurista e attivista ambientale, Anna si occupa di potenziare l’impatto sociale e mediatico dell’UDAPT con campagne di sensibilizzazione e mobilitazione, con la creazione di una rete mondiale delle vittime della Chevron nel mondo, e attraverso l’attività di formazione dei leader comunitari coinvolti nel processo contro la multinazionale, di contribuire a renderli protagonisti del processo di riparazione del danno ambientale.

Scritto da Anna Berti Suman Casco Bianco Focsiv a Quito

“Alcuni giorni fa il nostro responsabile, Enzo, ci ha annunciato che potremo votare da qui, dall’Ecuador, in occasione del referendum contro le trivellazioni che si terrà il prossimo 17 Aprile. La mia gioia nel sapere di poter essere consultata su questo tema così importante per il nostro paese è stata grande, forse anche amplificata dalla consapevolezza che questa facoltà non è data a molte delle comunità che nel corso del mio servizio sto incontrando. In particolare, il mio pensiero è corso agli abitanti di Intag, ed è di questo caso che vorrei raccontarvi. Credo sia indispensabile dare voce a questa piccola comunità che da decenni combatte contro l’impresa mineraria, proprio oggi che nella nostra bella Italia si parla di trivelle, e ci si chiede se è giusto continuare a sfruttarle.

La zona di Intag si trova nella Provincia di Imbabura, nel nord-ovest dell’Ecuador, ed è un’area caratterizzata dal “bosque nublado”, una foresta nebulare incredibilmente fertile e ricca di biodiversità. Negli anni ’90 del secolo scorso l’impresa giapponese Bishimetals aveva iniziato a sondare la fattibilità di una miniera di rame di piccola scala nel luogo. La valutazione di impatto ambientale aveva rivelato le conseguenze catastrofiche del progetto, in particolare deforestazione massiva e desertificazione del clima locale. La comunità allora iniziò una strenua resistenza all’impresa, un’opposizione “costruttiva” basata sulla creazione di alternative allo sfruttamento minerario, tra cui produzione di caffè, artigianato e turismo comunitario. Alla fine degli anni ’90 l’impresa giapponese decise di lasciare il paese. Ma nel 2004, nonostante pochi anni prima una ordinanza cantonale avesse proibito la realizzazione di miniere nell’area, fu la volta dell’impresa canadese Ascendant Copper. Quest’ultima adottò una strategia aggressiva contro gli abitanti locali, assoldando addirittura dei paramilitari, ma i comuneros non si arresero, riuscendo a cacciare anche questa seconda impresa dal paese nel 2010.

Purtroppo “non c’è due senza tre” e così arrivò il momento della cilena CODELCO, che aveva un vantaggio in più delle sue predecessori: l’appoggio del governo. Si creò un partenariato tra l’impresa cilena e l’ecuadoriana ENAMI EP, l’industria mineraria pubblica. E se è vero che l’unione fa la forza, le due compagnie unite iniziarono ad attuare una tattica di intimidazione e divisione della comunità di Intag. Nel 2013, Amnesty International intervenne nell’area, denunciando le violazioni di diritti umani che i mineros perpetravano per mettere a tacere ogni opposizione. Le ingiustizie raggiunsero il loro picco quando nel Maggio del 2014 Javier Ramírez, leader comunitario della lotta contro il progetto minerario, venne arrestato, senza alcun mandato giudiziale, con l’accusa di “terrorismo, sabotaggio e ribellione”. Dopo 10 mesi di detenzione preventiva, Javier fu liberato ma contemporaneamente condannato a 10 mesi di reclusione, pena che però era stata già scontata nei 10 mesi di prigione ingiustificata. Nel frattempo Intag non solo aveva perso il suo leader, ma veniva anche occupata dalle forze armate per “facilitare” le attività di esplorazione per la realizzazione di una miniera di rame, questa volta a grande scala (90 perforazioni di 10 cm di diametro e 100 m di profondità). Nel Marzo del 2015, mentre le prime perforazioni si stavano svolgendo, Human Rights Watch si insediò nella comunità denunciando alla comunità internazionale e alle autorità del paese le violazioni perpetrate nella zona.

Spinta dalla curiosità di conoscere questa comunità che da decenni combatte per difendere la propria terra, qualche mese fa mi sono avventurata nella remota zona di Intag. E così dopo ore di viaggio su una ranchera, una specie di camionetta senza tetto e piuttosto malandata, sono arrivata a Junin, dopo una tappa alla Decoin, l’unione per la “Defensa y Conservación Ecologica de Intag” ad Apuela. Junin rappresenta il cuore della resistenza, anche perché ospita la casa di Javier e altri coraggiosi comuneros che non hanno mai smesso di opporsi all’ingresso dell’impresa mineraria. Vengo accolta da Doña Carmelina nella sua semplice casa di legno, dove vive con sua figlia e il marito, poche galline e qualche maiale. Sua figlia è affetta da handicap ma, racconta la donna, le è stato tolto il sostegno economico che percepiva dallo Stato per far fronte alla situazione, quando ha deciso di schierarsi contro il progetto minerario. Conosco anche Don Lauro e Victor Hugo, incaricati del turismo comunitario, che mi accompagnano nella visita della riserva. Risaliamo una strada fangosa su delle moto dall’equilibrio abbastanza precario. Nel verso opposto incrociamo le jeep dei mineros che ci guardano di traverso dai loro finestrini mezzi abbassati. Lasciamo le moto nella costruzione che un tempo era adibita al ristoro dei turisti ma che ora è invasa dagli attrezzi utilizzati nelle attività estrattive. Per facilitare il passaggio dei muli che trasportano sacchi di materiale estratto e arnesi, sono state allargate le strade, tagliando la vegetazione. Iniziamo a percorrere il sentiero che conduce a delle cascate ma presto mi rendo conto che non sarà un’impresa facile: il fango regna sul terreno disboscato e ogni due passi bisogna fermarsi per cedere il passo a una carovana di muli sovraccarichi. Di tanto in tanto ci imbattiamo in aree totalmente spianate, circondate dai tronchi di alberi abbattuti, dove minacciosi solchi nel suolo fanno presagire uno sfruttamento disastroso.
La mia indignazione arriva al suo estremo quando ci si avvicinano dei funzionari dell’impresa e ci impediscono di proseguire. “Questo è suolo appartenente alla riserva comunitaria”, spiega con voce calma Lauro. E poi aggiunge che è suo diritto condurre i turisti a visitare le cascate. Ma i mineros sono irremovibili e, affatto persuasi, iniziano a parlare concitatamente attraverso dei ricetrasmettitori. Arrivano rinforzi e capiamo che dobbiamo indietreggiare. Mentre torniamo sui nostri passi penso alla scritta che figurava sulle uniformi di quegli uomini. “CODELCO: orgullo de todos”. Quale orgoglio, penso.. è forse un vanto l’imporre una logica capitalista sul valore impagabile di una riserva comunitaria?

Una volta tornati nel villaggio di Junin mi accorgo che la comunità è in fervore: è appena arrivata la notizia dell’annullamento delle elezioni che si sono democraticamente tenute pochi giorni prima e che hanno visto Javier Ramírez eletto come presidente della giunta direttiva comunale. Incontro Javier e sua moglie che mi raccontano di come il tenente politico competente per la zona ha indetto delle nuove elezioni, sostenendo che il processo elettorale era stato viziato da delle irregolarità. Ma è evidente che tali presunte irregolarità non sono altro che un pretesto per nascondere la volontà politica che le elezioni siano vinte da un candidato a favore dell’impresa mineraria. Lo scorso 27 febbraio si sono tenute di nuovo le elezioni ma ancora una volta ha trionfato Javier: il messaggio di opposizione al progetto estrattivo è chiaro e conferma i 20 anni di coraggiosa resistenza portata avanti dagli abitanti di Intag.

Il fatto che l’Ecuador sia l’unico paese andino dove l’impresa mineraria a grande scala non è ancora arrivata, che il rame è oggi quello che il petrolio era per il paese ieri, e il vedere negli occhi di quei comuneros la sofferenza che ricordo aver visto negli sguardi delle vittime della Chevron, mi ha fatto sentire coinvolta nell’appello disperato di quel piccolo villaggio. E una denuncia mi è venuta alla mente: violazione del diritto di consulta previa della comunità. Agli abitanti non è mai stata data l’opportunità di manifestare la propria opinione, e allora hanno dovuto farlo gridando. Anche quando hanno potuto esercitare il loro diritto di voto, questo è stato presto invalidato perché scomodo per l’impresa. Ma Intag non si arrende e continua a lottare contro il capitalismo estrattivo, dando un esempio a tutti noi.

Noi che tra poche settimane saremo chiamati a rispondere al quesito referendario in cui ci viene chiesto se vogliamo, alla scadenza delle concessioni, che vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane entro le 12 miglia dalla costa, anche se c’è ancora gas o petrolio. La vittoria del SI abrogherà l’articolo 6 comma 17 del codice dell’ambiente, il quale prevede invece che le trivellazioni continuino fino a quando il giacimento lo consente. Sarà così evitato uno sfruttamento senza limiti di tempo, fino ad esaurimento, e una logica di preservazione potrà domare la sete insaziabile di risorse che affligge la nostra società. Per questo abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere, di contribuire alla conservazione delle ricchezze del nostro mare, esprimendo il nostro voto, come dall’Italia, così dall’Ecuador e da tutti i paesi in cui ci troviamo a svolgere il nostro servizio!”

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