Bolivia Caschi Bianchi

In cammino a difesa del TIPNIS

I Rappresentanti delle Comunità indigene del dipartimento del Beni marciano in difesa del Parco di Isiboro Securé ma sulla strada verso La Paz si allunga l’ombra della repressione del Governo.

Scritto da Andrea Zanibellato, Casco Bianco a La Paz

Lo scorso 15 agosto sono partiti da Trinidad, capitale del dipartimento del Beni, nella zona amazzonica Boliviana, circa un migliaio di persone, parte delle 64 comunità indigene della zona, cominciando una lunga marcia in direzione di La Paz, la capitale. Lo scopo dichiarato è quello di opporsi alla costruzione della strada che, congiungendo direttamente Villa Tunari con San Ignacio de Moxos, attraverserebbe il Parco Nazionale Isiboro Securé, meglio conosciuto come TIPNIS (Territorio Indígena y Parque Nacional Isiboro Securé), e, secondo i promotori della marcia, provocherebbe danni ecologici e alle comunità locali, in un parco che conta almeno tremila specie differenti di flora che vivono solo in quella zona, oltre a 700 specie di uccelli e 200 di mammiferi e rettili. Secondo la società responsabile del progetto ABC (Administration Boliviana de Carreteras), la strada dovrebbe invece contribuire allo sviluppo economico della zona, oltre che permettere un migliore collegamento tra zona occidentale e orientale del Paese, e di conseguenza anche tra Bolivia e Brasile. Quest’ultimo ha investito nel progetto capitali notevoli con l’obiettivo finale di creare il cosiddetto Corridoio Bioceanico, una rapida via di terra tra Atlantico e Pacifico, dal porto brasiliano di Santos a quello cileno di Iquique.

La risposta ai marciatori da parte del Governo di Evo Morales non si è fatta attendere, ma contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare da un presidente che in tutto il suo percorso politico si è sempre dichiarato difensore delle questioni indigene ed ambientali, si è espresso totalmente a favore della costruzione della strada. Mentre la marcia proseguiva e raccoglieva il sostegno di organizzazioni sindacali e ambientaliste, il governo dichiarava che la marcia era pilotata dall’opposizione politica di destra, che i dirigenti indigeni avevano contatti con l’ambasciata statunitense e addirittura con l’ex-presidente Gonzalo Sanchez de Lozada[1], che erano manipolati dalle ONG straniere, in particolare USAID, l’agenzia di cooperazione internazionale statunitense, e che in generale avevano fini politici antigovernativi. La propaganda governativa è arrivata a trasmettere spot televisivi in cui si prospettava che se fossero state accolte tutte le richieste dei marcisti si sarebbe dovuta anche interrompere l’estrazione di gas naturale dalla zone limitrofe al parco, con conseguenti forti tagli allo stato sociale. Negli spot si menzionava esplicitamente l’eliminazione dei bonus alle neomamme, l’assistenza sanitaria agli anziani, il finanziamento a scuole e ospedali.

La situazione è diventata ancora più tesa quando, a metà Settembre, i cosiddetti “coloni” delle zone interessati dalla costruzione della strada, favorevoli all’opera, hanno deciso di costituire dei blocchi a Yucumo, in corrispondenza del passaggio obbligato del Ponte San Lorenzo, a metà dell’unica strada che collega direttamente Trinidad a La Paz, impedendo in questo modo alla marcia di arrivare alla capitale. Il Governo è allora intervenuto dichiarando che la polizia avrebbe fatto sì che le due parti non si scontrassero, e così intorno al 19 settembre un contingente di circa 400 poliziotti è stato dislocato nell’area di Yucumo per evitare il contatto tra marcia indigeni e coloni, mentre lungo il percorso altri distaccamenti hanno cominciato interventi di interposizione tra marcisti e oppositori, talvolta disperdendo gruppi di appoggio alle due parti con l’uso di lacrimogeni e strumenti antisommossa[2].

Tuttavia, mentre sembravano avviate anche delle trattative diplomatiche tra Governo e marcia indigena, la situazione è improvvisamente degenerata il 25 settembre, quando verso le 17.00 un contingente di polizia è intervenuto direttamente contro i marcisti accampati al ponte San Lorenzo, sparando lacrimogeni sulla folla, causando il panico generale tra uomini, donne e bambini che stavano riposando a fine giornata. Nella confusione la polizia ha arrestato alcuni dei marcisti e ha costretto la maggior parte degli altri a salire su dei mezzi per essere riportati a forza a Trinidad, dove era partita la marcia. L’intervento improvviso e, secondo alcune fonti, violento, da parte della polizia, pare sia stato ordinato in seguito di una azione del giorno precedente durante la quale i marcisti avevano tentato di superare il blocco di polizia facendosi scudo del ministro degli Esteri Choquehuanca, che si stava occupando della mediazione. La Comision de Comunicacion de la Marcha ha fatto subito circolare la notizia dell’azione da parte delle forze dell’ordine e della morte di un neonato di tre mesi a causa dell’inalazione dei lacrimogeni, fatto quest’ultimo che non ha trovato alcuna conferma ufficiale da parte dei mezzi di informazione. La risposta dell’opinione pubblica boliviana è stata quasi immediata: si sono svolte marce di protesta nelle maggiori città e i marcisti detenuti sono stati rilasciati grazie alla pressione popolare. Lo stesso presidente Evo Morales ha dichiarato che quanto successo a Yucumo “è imperdonabile” e che si sarebbero svolte indagini e puniti i responsabili dell’azione, annunciando allo stesso tempo la sospensione della costruzione della strada e un referendum nei dipartimenti di Beni e Cochabamba per dirimere la questione definitivamente. Anche le Nazioni Unite sono intervenute con un comunicato in cui si condanna la violenza e si sollecita la formazione di una commissione di inchiesta per verificare se sono state commesse violazioni dei diritti umani.

Contemporaneamente la questione politica si è fatta sempre più complicata: aumentano le spaccature all’interno del Governo e dello stesso partito del presidente, il Movimiento al Socialismo (MAS), con diversi ministri, viceministri e deputati che si sono dimessi nei giorni successivi come segnale di opposizione ai fatti del 25 settembre, così come alcuni dei funzionari che hanno più o meno direttamente autorizzato l’uso della forza contro la marcia, a partire dagli stessi ministri della Difesa e degli Interni.

In una situazione di contraddizioni e conflitti sempre più acuta, tutti guardano con ansia al prossimo 12 ottobre, quando è previsto l’arrivo della marcia indigena a La Paz, la cui scelta nonviolenta dichiarata inizialmente è messa in dubbio dalla prevista presenza contemporanea di contromanifestazioni di coloni e sostenitori del governo. In mezzo alle tante dichiarazioni opposte ed agli opportunismi politici l’esito dello scontro tra ragioni di indigeni ed ecologisti da una parte e sostenitori dello sviluppo economico dall’altra è molto incerto e da un punto di vista esterno decisamente preoccupante visto il livello di conflitto raggiunto.

Note:

[1] Gonzalo Sanchez de Lozada, soprannominato “Goni”, è stato presidente della Bolivia nel 1993-1997 e nel 2002-2003. Risiede attualmente negli Stati Uniti ma su di lui pende una richiesta di estradizione boliviana, in merito alla repressione militare, che causò circa 50 morti, ordinata contro i blocchi cittadini a La Paz/El Alto nell’ottobre 2003, durante le rivolte popolari della cosiddetta “Guerra del gas”.

[2] Il 22 settembre a Riberalta (Beni) il quotidiano La Razon riferisce di uno scontro con almeno quattro feriti, di cui un poliziotto.

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