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Caschi Bianchi Perù

Hasta la raiz

“La situazione di svantaggio diviene l’elogio alla vita, quella vita colma di sfide quotidiane, di controsensi e dissapori che la rendono più emozionante e immensamente ricca di amore e di puro essere al mondo”. Rosaria, Casco Bianco in Perù, ci racconta il mondo dei bambini e dei ragazzi peruviani, una realtà che si presenta come punto di domanda e alla quale sta cercando risposte attraverso il servizio civile.

Scritto da Rosaria Giorgio, Casco Bianco Cope – Focsiv a Cusco

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
con il suo marchio speciale
di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore,
di umanità,
di verità.

“Smisurata Preghiera”
di Fabrizio de André, Anime Salve, Genova, 1996

“Qui sorridono tutti, sorridono senza doverti vendere niente, senza comprarti e ti sorridono anche quando non siamo capaci di sorridere. I bambini ancora di più”. Tratto dal film “Un giorno devi andare” di Giorgio Diritti.

Noi occidentali viviamo inondati da pure immagini e da regole che governano il nostro modo di vivere, di comportarci e di esprimerci, regole che regolano i nostri stati affettivi ed emotivi. E tutti noi siamo costretti a partecipare a questa finzione. Pena l’esclusione sociale e la perdita dal contatto umano. Abbiamo dimenticato di sorridere con gratuità e con spontaneità, abbiamo un buco nell’anima da cui sgorga un’ansia costante di ricercare contatto e relazioni intime, che sono state sostituite con il tempo dal rumore circostante del mondo nel quale lentamente affoghiamo, un mondo di illusione e privo di bellezza che ha distolto il nostro sguardo dal mondo interiore dell’amore e del nostro essere bambini, dal sorriso.

In Perù non è così. La gente sorride, i campesinos sorridono, gli anziani sorridono, le donne sorridono, gli uomini sorridono e i bambini e i ragazzini sorridono. Questi ultimi sorridono più che mai e regalano amore, un amore che non si cristallizza come mera condizione strutturale del nostro essere umano, ma come una virtù che solo questi bambini, dallo sguardo penetrante e dagli occhi a chinito, possiedono e possono regalare.

Ascoltando attentamente e osservando quasi quotidianamente le vite di questi bambini e ragazzini della periferia di Cusco, mi sono chiesta come, nonostante tutto, loro riescano a sorridere a una vita priva di stimoli, ai quali noi siamo abituati, e da dove si origina questa forza interiore, selvaggia e salvifica allo stesso tempo, che permette a tutti loro di vivere una vita intensa, ricca di bellezza, piena d’amore e di pace interiore.

La risposta l’ho, in parte, trovata.

Credo che per poter comprendere al meglio la vita dei bambini e dei ragazzi peruviani bisogni osservare e analizzare il contesto di sviluppo e di crescita. Con il termine contesto mi riferisco agli stimoli ambientali ricevuti durante i primi anni di infanzia e alla relazione famigliare. Infatti, come dimostrato da noti studi sociologici e psicologici, un ambiente ricco di stimoli espone il bambino di fronte a sfide e a situazioni avverse che vengono superate adeguatamente poiché il bambino durante il corso dell’infanzia, è stato in grado di sviluppare strategie che gli hanno permesso di affrontare eventi stressanti e traumatici, anche grazie all’appoggio della rete relazionale e famigliare. In caso contrario, un ambiente povero di stimoli è caratterizzato da relazioni famigliari precarie o quasi nulle che generano uno sviluppo e una crescita inadeguata del bambino, che non sarà in grado di affrontare le complesse sfide esistenziali.

In questo scenario la prima infanzia è dunque considerata il periodo maggiormente critico per la formazione della personalità, come sosteneva un noto psicologo britannico Bowlby. Infatti, riprendendo i concetti salienti dello studioso, l’attaccamento alla figura materna segna uno snodo vitale per la crescita e lo sviluppo sano dell’individuo che sin dalla nascita adotta un sistema comportamentale che risulta essere innato, volto in prima battuta alla ricerca di protezione e, secondariamente, alla strutturazione di legami di attaccamento, di intimità e protezione verso specifiche persone. Queste esperienze precoci di attaccamento tra il neonato e la madre mostrano come fin dalla nascita e per tutto il corso della nostra vita l’individuo per poter sopravvivere ha la necessità di relazionarsi, confrontarsi, ricevere cure e sicurezza, apprendere, stabilire legami duraturi e di fiducia con gli altri poiché l’uomo è per sua natura un animale sociale. La relazione diviene dunque il nucleo fondamentale dell’esistenza umana, punto vitale dello sviluppo del bambino e della crescita sana. Nel vortice relazionale gioca un ruolo di necessaria importanza anche la fiducia quale sentimento di compartecipazione interindividuale alla sicurezza.

La realtà è ben diversa per la grande maggioranza dei bambini e dei ragazzini che vivono nelle periferie e nei contesti di miseria e degrado, non solo di Cusco, ma in tutto il Perù. La prima infanzia e i primi anni di adolescenza sono caratterizzati da innumerevoli violenze e ripetuti abbandoni, un’esistenza di sfiducia. Accade alla maggior parte di loro di crescere isolati, di diventare responsabili prima del tempo, di sentire il morso della fame, di non essere accettati, di vivere al margine della società e di essere abbandonati dalla società stessa. Tutto ciò lascia soltanto due possibilità alle vittime: andare avanti in ogni caso o abbandonarsi e soccombere.

I primi sono coloro che sono riusciti a mantenere accesa la luce della speranza poiché hanno sperimentato un tipo di attaccamento sano alle figure genitoriali, soprattutto nei confronti della madre e che attraverso le esperienze hanno maturato un sentimento di fiducia e una relazione così stabile che ne hanno impedito il cedimento e rafforzato il sentimento di battaglia interiore e esteriore, come la storia di Fiorella, 6 anni, del barrio de San Jerónimo a Cusco: “Amo i miei genitori, loro si prendono sempre cura di me, si preoccupano. Sono partecipi nella mia via. Vivo con loro assieme ai miei fratelli e sorelle in una casa condivisa con mia zia e i suoi figli. Siamo una grande famiglia. Quando ho bisogno la mia mamma c’è sempre. I miei fratelli e sorelle anche. Non cambierei mai la mia famiglia”.

I secondi sono coloro che sfortunatamente non hanno sperimentato un attaccamento a livello affettivo e corporeo con la madre e non sono riusciti a interiorizzare e assorbire esperienze o eventi traumatici.

Lentamente si sono abbandonati, sprofondati in una situazione di disagio emotivo, sfiducia e si sono allontanati da sé, come il caso di Ivan, 16 anni, della comunità di Pilcopata, Kosñipata: “Mio padre ci ha abbandonati, non sappiamo dove sia. Vivo in una piccola casa con i miei fratelli e le mie sorelle, le mie zie e zii, cugini e cugine, nonni e nonne. Viviamo qui insieme. La mattina vado al campo a raccogliere le banane, l’ananas e le papaye. Al collegio non ho molti amici, non parlo molto. Non mi piace studiare e quando ho tempo libero vado al bar. Qui a Pilcopata c’è problema di alcolismo e narcotraffico. Ho avuto relazioni con donne più grandi di me. Non immagino il mio futuro. Io rimarrò qua, dimenticato, anche da Dio”.

Il mondo dei bambini e dei ragazzi peruviani che vivono in questi contesti di grave povertà è molto articolato e le leggi che lo governano sono più elastiche: vivono in case di fango e paglia, vivono su piattaforme, non conoscono la comodità, vivono in nuclei familiari tipicamente ampi, dove spesso accade che uno o più membri scompaiano e ricompaiano in modo incostante, sono in genere i ragazzini, in particolare le femmine, a doversi occupare dei fratelli più piccoli, devono lavorare per guadagnarsi da vivere mentre vanno a scuola, il più delle volte passando da un impiego all’altro in base alle necessità e alle possibilità del momento, sperimentano e gestiscono le situazioni più diverse, inclusi maltrattamenti e abusi fisici e sessuali ripetuti che si consumano il più delle volte all’interno delle stesse famiglie. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze costretti a salire sui collectivos o le combi per vendere sull’Avenida de la Cultura bombones o golosinas, cantare canzoni o recitare poesie negli angoli di Plaza de Armas per guadagnare qualche solsitos, sfilare nei luoghi turistici con abiti tradizionali andini e camminare per le strade incaiche con piccoli lama o alpaca per farsi scattare qualche fotografia dai mille turisti in cambio di pochi spiccioli.

E anche se l’ultima cosa che ci aspetteremmo da questi bambini in queste condizioni è che siano felici, loro riescono comunque ad esserlo. Nonostante tutto, ci riescono. Sono convinta che nessuno di noi ci riuscirebbe, e questo, forse, perché nascere e crescere nell’ambiente in cui quei ragazzi vivono non è possibile se non ci si adatta.

Una risposta alla mia domanda iniziale l’ho trovata. Ciò che rende questi ragazzini e bambini sempre sorridenti è, non soltanto la risposta adattativa alla sopravvivenza maturata e l’esperienza di attaccamento durante la prima infanzia, ma la grande capacità di resilienza che possiedono, ossia la flessibilità di resistere a eventi contrari e sfavorevoli, a stati emotivi negativi e al trauma delle esperienze negative vissute che permette a tutti i bambini di fare propria la forza negativa restituendola alla vita in forma positiva, ottimistica e generativa. Tale capacità è legata alla ricchezza delle relazioni interpersonali, le quali sono più diffuse nei contesti di povertà, laddove le famiglie tendono ad essere numerose, le reti di relazioni con il vicinato e il quartiere sono più estese e più radicate. Pertanto i bambini entrano a contatto con nuove figure di attaccamento e ri-nutrono un sentimento di fiducia, si riaccende una luce di speranza e si rinforza la capacità di resilienza. Relazione, fiducia e capacità personale di fronteggiare gli eventi sono la chiave della speranza, di sperare in un futuro migliore.

La situazione di svantaggio assume dunque ai miei occhi un fascino ancora più carico di interesse. La situazione di svantaggio diviene l’elogio alla vita, quella vita colma di sfide quotidiane, di controsensi e dissapori che la rendono più emozionante e immensamente ricca di amore e di puro essere al mondo, è seguire con lo sguardo un tramonto e aspettare con ansia e nostalgia la prossima alba, è lottare contro un male immensamente grande che non necessariamente ci priva delle forze ma ci insegna a vincere sul dolore, è imparare a sentire la bellezza della verità, è portar fuori violentemente tutte le potenzialità umane per affrontare ostacoli, è guardare negli occhi i bambini e i ragazzini peruviani e perdersi nei loro sguardi e nei loro occhi che sorridono, sempre sorridono.

Questo articolo nasce dalla mia diretta esperienza presso un centro di accoglienza per bambini “Proyecto Muju” nella periferia di Cusco nel barrio de San Jerónimo. Questo progetto è supportato dalla “Cooperativa de ahorro y credito Mide” nella quale svolgo da quasi nove mesi il mio Servizio Civile. L’idea del progetto nasce da un dottore coreano che vive da più di 10 anni a Cusco. La volontà e la passione per questi bambini in condizione di estrema vulnerabilità ha fatto sì che insegnanti, professori ed educatori, compresa la cooperativa, quotidianamente si impegnino per aiutare questi bambini e ragazzini a crescere in un ambiente sano, rassicurante e stimolante.

È stata e continua a essere un’esperienza profonda e intensa. La passione e la fiducia per la vita di quei bambini e ragazzini della periferia, la felicità dilagante che dal sorriso di ognuno di loro esplode intorno, l’amore resiliente creato in forma diffusa e concreta, hanno fatto sì che questa esperienza sia divenuta per me il contatto più intimo con la vita, l’incontro con l’amore vero.

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