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Caschi Bianchi Ecuador

Aeroplanini di carta

“Sin emoción no hay aprendizaje”, senza emozione non c’è apprendimento. Ce lo racconta Laura, che si è ritrovata durante il suo Servizio Civile a Tena in Ecuador, ad approfondire l’aspetto delle emozioni, dell’affetto e l’importanza della comunicazione, nell’educazione

Scritto da Laura Pasquali, Casco Bianco con FOCSIV – ENGIM a Tena

Sono le 10:15 e il cielo di Tena é uno dei piú azzurri che si siano mai visti da Ottobre, dall’inizio di questo’anno di Servizio Civile nell’Amazzonia Ecuatoriana.

Don Mario, signore kichwa sulla sessantina nonché bidello della scuola, o come lo chiamano qui el auxiliar, ha suonato, con i suoi canonici cinque minuti di ritardo, la sirena, inequivocabile segnale che è l’ora del recreo. Fin dai tempi delle scuole elementari, quando il profumo era di panini imbottiti e il sapore era di libertà dalle quattro mura dell’aula, l’intervallo è stato uno dei miei momenti preferiti della giornata scolastica. Ora, vent’anni dopo, che a scuola ci sono ancora, ma come maestra, rimane un momento che mi gusto, in cui è piu facile e immediato avvicinarsi ai bambini e agli altri maestri e conoscersi meglio.

I primi a scendere in cortile sono sempre loro, Fidel, Elias e Jean Carlos di Cuarto Grado (il corrispondente della nostra terza elementare). Se potessero, invece di scendere le scale, si calerebbero dalla loro aula con una corda per fare ancor prima. Tutti e tre sembrano piú piccoli dell’etá che hanno e ognuno ha sottobraccio un quaderno vecchio, tutto ció che serve per il loro gioco preferito. Iniziano a strappare un foglio e, con la precisione di un ingegnere aeronautico, a piegare prima da una parte, poi dall’altra, poi ancora a metá.. da perderci il conto.

“Mira Laura!”, “Maestra aqui aqui!”, “Mira, ve!”

Neanche il tempo di alzare gli occhi e il cielo si riempie di aeroplanini di carta, una vera e propria flotta aerea, visto che nel frattempo si sono aggiunti David, Sisa, Antoni, Walter e altri di Quinto e Sexto Grado.

Esto ya no vale” (Questo non funziona!), mi dice Fidel con il suo forte accento kichwa, guardandomi con la palpebra dell’occhietto sinistro semichiusa (ci é nato, dice lui) e il sorriso furbetto di chi ti vuole fare uno scherzo. Butta l’aeroplanino per terra e inizia a pestarlo scenograficamente con veemenza; in realtá ne pesta solo la punta, per farlo volare più veloce, trucchi del mestiere. Gli piace che io, tutta preoccupata, gli dedichi attenzione e gli dica “No Fidel, no lo hagas! Ese avion todavia vale!” (Non lo fare, funziona ancora!) per poi, davanti ai miei occhi stupiti, riprenderlo in mano e fargli fare un volo pirotecnico e rincorrerlo per acchiapparlo prima che cada.

Fidelito ha otto anni e ogni giorno cammina un’ora e mezza per venire a scuola e un’altra ora e mezza tutta in salita, sotto al sole o alla pioggia battente amazzonica, per tornare a casa. Vive a San Cristobal, in una comunità non ancora servita da elettricità e acqua corrente, con le sorelle Yadira, 13 anni, e Josselyn, 10 anni. I genitori lavorano in una finca (una fattoria) lontana e li vanno a trovare una volta a settimana o ogni 15 giorni, per lasciare loro qualcosa da mangiare. Fidel e le sue sorelle provvedono a se stessi, cucinandosi e lavandosi i propri vestiti. Quando cerchi di abbracciarlo è più sfuggente di una anguilla, ma poi è il primo che ricerca affetto e attenzioni, a modo suo.

I bambini che frequentano la scuola Aldelmo Rodriguez, con cui Casa Bonuchelli ha collaborato per tutto l’anno scolastico offrendo laboratori di inglese, orticultura, manualità e sostegno scolastico pomeridiano, sono per il 98% di etnia kichwa e la maggior parte vive in comunità periferiche al di fuori della Ciudad del Tena, e presentano problematiche sociali profonde, di povertà, malnutrizione, alcolismo diffuso, abbandono di minori e violenze e abusi intrafamigliari.

Storie come quella di Fidel purtroppo non sono un’eccezione, ma troppo spesso la regola. Durante questi nove mesi come maestra di inglese, mi sono trovata a cercare di costruire relazioni affettive, guidata dalla convinzione che la base di qualsiasi apprendimento sia una relazione affettiva vera tra insegnante e alunno. Sin emoción no hay aprendizaje. Avevo davanti qualcuno di molto diverso rispetto a chi avevo incontrato fino a quel momento. Ho trovato strade spianate con corsie preferenziali, che non aspettavano altro che essere percorse, o strade chiuse, con muri di difesa altissimi, a volte quasi invalicabili. Ho cercato di capire quali necessità hanno portato a costruire queste barriere e come riuscire ad aprirmi anche un piccolo spiraglio dentro esse, capendo a mia volta che potevo anche metterci tutto l’anno senza riuscirci.

Più in generale, penso che l’anno di Servizio Civile sia un anno di abbattimento di barriere, personali, culturali, comunicative ed emotive, in cui comprendi che non esistono tempistiche giuste o attrezzi infallibili. Un abbraccio o una carezza possono essere tanto efficaci, quanto produrre l’effetto opposto, e uno sguardo, rivolto con la palpebra dell’occhietto sinistro semichiusa, può significare il più grande dei varchi.

Quando parti da casa, in Italia, il senso del Servizio Civile ancora non lo puoi sapere. É una domanda, che spesso ti viene rivolta, a cui puoi rispondere elencando le motivazioni che ti portano a farlo e le tue aspettative. Il significato di quest’anno dall’altra parte del mondo lo costruisci tu volontario giorno per giorno. É una scoperta lenta, che ti sorprende, ti entusiasma, ti appassiona, ti prende fino a farti lavorare per giornate intere senza sosta dalle 7 del mattino fino alle 10 di sera, andando a letto stanca ma felice, soddifatta di piccole conquiste quotidiane, ti appaga, ti porta a riflettere su quello che fai, su come lo fai e sulle conseguenze del tuo agire, ti arricchisce professionalmente e, ragazzi, cosa ve lo dico a fare, UMANAMENTE. Ti fa condividere, sorridere e ridere tante di quelle volte che ci perdi il conto, e ti fa anche piangere, lacrime di delusione quando avevi riposto tante energie su qualcosa (o qualcuno) e poi non va come avevi sperato; di disillusione e tristezza, quando ti scontri con realtá cosí dure da rendere difficile concepirne l’esistenza. E’ una scoperta che dura fino all’ultimo giorno e oltre, quando in situazioni lontane dal punto di vista geografico e culturale cogli nuove sfumature, altri pezzetti del puzzle che non avevi ancora trovato. E la figata (passatemi la vulgarité, ndr) è che ognuno di noi, nonostante le esperienze comuni fatte in Servizio Civile, darà a quest’esperienza un significato strettamente personale, connesso alle esperienze precedenti che lo hanno portato cosí com’é, in quel posto in quel momento della sua vita, della sua crescita come Persona.

Fidel, Josselyn, Margotina, Jennifer, David, Marlon, Lino, Areli, Sisa, Fatima, Widinson, Efrain tra i tanti sono stati fondamentali in questo percorso di ricerca e scoperta, aiutandomi a costruire il senso di quest’anno di Servizio Civile che, se fosse un puzzle, sarebbe un cielo azzurro pieno di aeroplanini di carta.

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