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Caschi Bianchi Sierra Leone

Sierraleonesse: donne in cerca di riscatto

La storia di Mariama Bundu

Scritto da Corrado Pagliarusco, Casco Bianco in Servizio Civile con Caritas Italiana a Makeni

Attendo Mariama in un bar di Makeni, ripassando mentalmente le domande per l’intervista. Arriva a bordo di un’okada, le moto-taxi regine della strada in Sierra Leone, e si scusa per il leggero ritardo.

Ha il sorriso dolce di una madre e lo sguardo smaliziato di un’imprenditrice.

Indossa scarpe sportive, jeans chiari e un gilet blu scuro sopra una camicia tradizionale dai colori tipicamente africani, allegri e sgargianti. Sul gilet campeggiano le sigle OIM (l’organizzazione internazionale per le migrazioni) e MAM (migrants as messengers, un progetto della stessa OIM).

A prima vista appare forte e risoluta, e solo dopo un’attenta osservazione si possono notare i segni dei soprusi e delle violenze che ha subìto. Mentre mi racconta la sua storia, dalle sue espressioni traspaiono il forte senso di rimpianto, ma anche l’enorme determinazione, la rabbia di chi è consapevole che non può cambiare gli errori del passato, ma che farà tutto il possibile per riscattarsi da essi.

È il 2015, Mariama ha 29 anni e lavora in un hotel nel distretto di Kambia, nel nord della Sierra Leone. Avere un impiego in SL è un privilegio, ma gli stipendi sono talmente bassi che permettono a malapena di arrivare a fine mese. Per questo, quando sua sorella le parla di un agente che la porterebbe a lavorare in un hotel in Australia, Mariama stenta a crederci: la pagherebbero 2000 dollari al mese. L’attrattiva del “greener pasture” è troppo forte per resistervi, e sa che una volta in Australia potrà mandare soldi alla propria famiglia.

Si fida dell’agente, ma i sogni costano cari: deve trovare il denaro per pagarsi viaggio, passaporto e assicurazione sanitaria. Si tratta di circa 2500 dollari, una cifra esorbitante in Sierra Leone. Come farebbe chiunque, chiede aiuto alla famiglia. Sua madre la incoraggia a partire e ottiene un prestito in banca per coprire le spese necessarie. Pensa che Mariama avrà un ottimo stipendio e che il debito verrà ripagato nel giro di pochi mesi. Non può immaginare che sua figlia non invierà a casa neanche un centesimo.

Una volta ottenuti i fondi e sbrigate le pratiche, Mariama saluta famiglia (ha una figlia di 9 anni) e amici, e piena di speranze parte per l’Australia.

Ma atterra in Kuwait.

Dopo una prima fase di smarrimento, Mariama prova a spiegare a chi la attendeva in aeroporto che deve trattarsi di un errore: lei deve andare in Australia. Ma di fronte ai sorrisi beffardi dei suoi accompagnatori comincia a farsi largo l’orribile consapevolezza che è stata vittima di una truffa.

All’improvviso si trova in un luogo sconosciuto, non capisce la lingua e non conosce nessuno. è l’inizio di un incubo.

In Kuwait, come in altri Paesi del Golfo, i lavoratori stranieri vengono assunti e poi monitorati tramite il sistema Kafala. Questo prevede l’esistenza di sponsor, dai quali i lavoratori dipendono in toto. Si tratta di un tipo di legislazione che di fatto permette una moderna forma di schiavitù, in quanto non di rado gli sponsor agiscono più come schiavisti che come tutori legali nei confronti dei lavoratori.

Negli oltre due anni di permanenza in Kuwait, Mariama viene impiegata come domestica presso diverse famiglie, letteralmente venduta da un “datore di lavoro” a un altro. Le vengono confiscati cellulare e documenti, mangia cibo scadente e dorme sul pavimento. Lavora da mattina a sera e non ha giorni di riposo. Viene costantemente maltrattata e deve anche difendersi da un tentativo di stupro. Come altre vittime del Kafala system, arriva a considerare il suicidio.

Mentre mesi di soprusi si avvicendano, Mariama non vede un centesimo dei 2000 dollari mensili promessi dall’agente prima di lasciare la Sierra Leone.

Quando finalmente riesce a fuggire, dopo circa due anni, viene fermata dalla polizia, che trovandola a vagare senza documenti la rinchiude in carcere. Ironia della sorte, lo stesso accade a sua madre in Sierra Leone, perché incapace di ripagare i debiti contratti per il viaggio della figlia.

L’incarcerazione di Mariama smuove però qualcosa. Si sparge la voce sulla sua condizione e diverse associazioni per la tutela dei lavoratori la notano. Cominciano le pressioni sul governo del Kuwait, che finalmente si decide a rimpatriarla, dandole anche il corrispettivo di tre mesi di paga. Questo accade in maggio 2018.

Quella che torna a casa non è però la stessa Mariama che aveva lasciato la Sierra Leone più di due anni prima. è una donna vuota, distrutta psicologicamente, che vaga per strada blaterando frasi senza senso. Molti parenti e amici prendono le distanze, delusi o arrabbiati. Diversi le danno della fallita, altri la accusano di aver nascosto i soldi guadagnati all’estero per non volerli condividere.

Ci vogliono mesi, ma, anche grazie alle attività di recupero e sostegno dell’OIM, Mariama si rialza e in gennaio 2019 fonda Wag-Caim (women and girl child against irregular migration), una ONG che collabora con OIM allo scopo di sensibilizzare le giovani donne sui rischi della migrazione irregolare.

Le volontarie di Wag-Caim sono ex kafala workers che portano nelle scuole di Kambia le loro testimonianze. Ma l’ONG non si limita a questo: fornisce sostegno psicologico alle vittime di tratta e organizza anche laboratori per ex kafala workers, al fine di fornire competenze utili per il loro reinserimento nel mondo del lavoro.

La tratta di esseri umani in Sierra Leone è un fenomeno largamente diffuso, sia a livello interno che verso l’estero. Per questo motivo, il Paese ha estremamente bisogno di ONG come Wag-Caim, e dell’intraprendenza di Mariama e di tante donne che, come lei, hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze della tratta.

Oggi Mariama è tornata a sorridere, e 8 mesi fa è diventata madre per la seconda volta, con la nascita di suo figlio. Ma mi assicura che non ha dimenticato il Kuwait, non può dimenticarlo. Lo deve a sua figlia e a tutte le giovani sierraleonesi.

Attualmente l’impegno principale di Caritas Italiana in Sierra Leone riguarda la prevenzione della migrazione irregolare e il traffico di esseri umani attraverso campagne di informazione e sensibilizzazione e iniziative di promozione socio-economica. Questo grazie anche a un progetto di Servizio Civile Universale con operatori volontari a Makeni.

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