Caschi Bianchi Tanzania

Il tempo dell’ascolto

Nel caldo della Tanzania ci si saluta con lentezza, realizzando un vero incontro con l’altro, come lo è quello con i bambini e le famiglie assistiti nei progetti, perché più del cibo o delle medicine è importante l’ascolto

Scritto da Marie Franziska Moeller, Casco Bianco in servizio civile con L’AFRICA CHIAMA – FOCSIV a Iringa

17 ottobre 2020. Dar es Salaam ci accoglie con un caldo clamoroso e un sole che spacca le pietre, per noi che veniamo dall’autunno italiano un sollievo. Usciti dall’aeroporto ci immergiamo subito nella vita ai lati della strada: gente che lavora, bancherelle di frutta e verdura, bimbi che giocano e donne che cucinano all’aperto. Un miscuglio di movimenti, colori, odori e terra rossa. Il tutto accompagnato da rumori, provenienti soprattutto dalla strada, dove se la battono macchine, camion, pulmini, moto e persone in bici.

In questo marasma colorato inizia il nostro percorso di servizio civile in Tanzania.

Percorso che in realtà è iniziato quasi un anno prima, ad ottobre 2019, quando ho presentato domanda per il Servizio Civile Universale. Personalmente la mia scelta di fare domanda è fortemente connessa con l’associazione con cui sono partita, L’Africa Chiama.  Infatti, avevo il sogno di fare volontariato in Africa da quando ero piccola e appena compiuti i diciotto anni ho partecipato al corso di preparazione organizzato da L’Africa Chiama e l’estate dopo sono partita per un mese in Tanzania. Sono cresciuta grazie e con l’associazione, ho partecipato a eventi, condiviso casa con altri volontari, ho fatto amicizie e conosciuto persone straordinarie. Quindi quando ho deciso di fare il servizio civile potevo solo farlo con L’Africa Chiama al mio fianco.

Poi la pandemia ha sconvolto i piani e ci sono stati lunghi mesi di incertezza, senza sapere se potessimo partire o meno. Ma la voglia di andare è stata comunque sempre presente e mi ha fatto resistere e sopportare i mesi d’attesa. Così a fine settembre è arrivata finalmente la notizia che saremmo partiti a breve ed è iniziata la mia esperienza in Tanzania.

Mi sono ambientata abbastanza velocemente, non ho mai sentito quel senso di estraneità che magari si sente trovandosi dall’oggi al domani in un contesto completamente nuovo e diverso dal proprio. Sono convinta che questo sia merito della gente del luogo che ti accoglie a braccia aperte e con un sorriso ti coinvolge subito in una chiacchierata, fregandosene anche della tua poca conoscenza della lingua locale.

In Tanzania i saluti sono fondamentali e sono la prima cosa che abbiamo imparato. I primi cinque minuti di ogni conversazione si passano a scambiare saluti che vanno dal semplice ‘come stai?’ A “come va il lavoro”, “come stanno i figli”.. E così via. È un momento importante nella cultura swahili. Momento che si dedica a salutare ed accogliere chi hai di fronte, in cui ci si ferma per dare attenzione e ascoltare veramente l’altro. Non è semplicemente un rituale, un atto distaccato a cui si è obbligati per cortesia, ma è un istante che richiede di fermarsi, permette di accorgersi della persona con cui interagiremo, in cui ci si deve prendere una pausa e ascoltare, senza arrivare subito al punto, pensando solo a sé stessi e alla propria tabella di marcia, ma volto a stabilire una relazione, un contatto reale.

Questa interazione spontanea ed aperta dei tanzaniani ha favorito anche la comunicazione e l’inserimento nello staff locale di Africa Call Organization, partner locale de L’Africa Chiama e l’integrazione nei progetti. Di progetti ce ne sono tre ad Iringa: il progetto Sambamba, volto a favorire l’inclusione sociale di bambini con disabilità residenti nel comune di Iringa, il progetto Kipepeo che ha l’obbiettivo di innalzare il livello di sicurezza alimentare dei bambini di Iringa e delle loro famiglie attraverso un programma multisettoriale e infine le mense scolastiche, con cui l’associazione riesce a garantire 3 pasti nutrienti a settimana a più di 3.000 bambini.

Ci sarebbe molto altro da dire sui progetti, sulle difficoltà e successi di essi, ma mi voglio soffermare sulla cosa che in quest’anno di servizio civile mi ha dato di più, ossia il contatto con la comunità. Il fatto di non essere chiusa in ufficio ed andare ogni giorno nelle sedi dove si sviluppano i progetti, vedere i bimbi, conoscere le madri, stabilire un rapporto con loro è stata la cosa più bella e arricchente. Avere anche il tempo di poter ascoltare, dando valore alle loro storie, non è scontato e mi ha reso più consapevole di come comunicare. In particolare abbiamo potuto vivere questo contatto con la comunità nelle visite domiciliari del progetto Kipepeo. In queste visite si va nelle case delle famiglie beneficiari, per vedere come è la situazione, trasmettere le nozioni ed insegnare alle mamme a preparare dei pasti nutrienti. Assistere le nutrizioniste nelle visite mi ha permesso di conoscere il modo di vivere, gli spazi e le abitudini più intime e personali delle famiglie.

Un incontro mi rimarrà particolarmente in mente. Un giorno siamo partiti con la macchina per visitare i bimbi più lontani. Dopo l’asfalto la strada si faceva sempre più sterrata tra campi di mais e girasoli altissimi. Scendiamo dalla macchina e seguiamo un piccolo sentiero nei campi di mais. Arriviamo a una casa, costruita col fango, circondata completamente dalle piante di mais alte più di due metri. Il primo impatto è forte, davanti alla casa ci aspettano tre bambini chiaramente malnutriti, tutti con il ventre gonfio. La situazione è difficile, la madre di 31 anni ha già quattro figli, di cui uno vive con la nonna. Eppure non riesce a procurare da mangiare agli altri tre figli. In più non sa né leggere né scrivere. Questo non aiuta nel primo approccio con le nutrizioniste che in modo facile le spiegano le prime cose. La madre dimostra un atteggiamento di paura e di vergogna, poiché si rende conto delle sue difficoltà a capire. Per fortuna le nostre nutrizioniste sono molto brave ad interagire con le mamme e toglierle le paure. Anche i bambini Angelica, Pili e Gudi all’inizio erano molto diffidenti. I loro sguardi raccontavano molto di più di tante parole, parlavano di sofferenza, di fame, di curiosità, di vita e gioia. Spero di non dimenticarli mai questi visi, così piccoli ma già così saggi e vissuti.

Piano piano nelle prossime visite mi hanno dato sempre più confidenza e adesso quando arrivo mi saltano addosso e non si staccano più. Vederli aprirsi nei miei confronti, darmi fiducia e vedere i loro miglioramenti a livello di salute mi riscalda davvero il cuore. Il loro percorso non è stato facile ed è ancora lungo, ma sono speranzosa per il loro futuro. Questo incontro per quanto mi abbia dato tantissimo, non è stato facile. Vedere questi bambini fantastici in questa situazione precaria mi ha fatto sentire impotente e triste, si meriterebbero tutto il bene del mondo soprattutto un’educazione che magari gli permetterà un giorno di poter scegliere e avere potere sul loro destino. Diritti fondamentali che ogni bambino del mondo dovrebbe avere.

Tra poco ritorneremo a Dar, attraverseremo di nuovo quelle strade polverose, piene di gente. Vivremo un’ultima volta il caos che per noi è diventato normalità e poi saluteremo questo paese che ci ha fatto da casa nell’ultimo anno. Partiremo sicuramente con un bagaglio in più, fatto di volti, racconti, esperienze, avventure e cose difficili da spiegare a parole, che ci rimarrà per tutta la vita.

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