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Caschi Bianchi Grecia

Sarei potuta essere io al loro posto

“Moria è un posto inumano, faccio fatica a non paragonarlo ai campi di concentramento nazisti che ho visto nei libri di scuola o nei film”. Le parole coraggiose di Ornela, che alle elementari in Italia era “l’albanese”.

Scritto da Ornela Xhemaj, Casco Bianco con Caritas Italiana a Lesbo

“Sarei potuta essere io al loro posto” continuavo a ripetermi camminando tra le tende colorate Quechua e i container bianchi segnati da grandi numeri rossi, cercando di evitare l’immondizia accatastata agli angoli del campo d’olivo che si affaccia sul mare che divide Lesbo dalla Turchia.

Qui a Lesbo, per la prima volta, ho realizzato di quanti privilegi abbia goduto fino ad ora. Avevo otto anni quando con un documento falso e un biglietto del traghetto per Bari, abbassando lo sguardo ai controlli di frontiera per timore di essere scoperta e rimandata indietro, sono arrivata in Italia
Dall’altra parte dell’Adriatico, nella vera Europa, quella buona, ricca e accogliente. Crescendo in quella che sarebbe poi diventata la mia nuova casa, ho sempre e solo preso in considerazione le conseguenze negative di essere un’immigrata, una straniera venuta da un paese tanto vicino quanto diverso. Non potevo permettermi di seguire le lezioni private di danza o musica, di praticare uno sport, di fare ripetizioni di latino o greco. Nella mia classe per tutti ero “l’albanese”, quella che non era invitata a casa delle compagne di classe perché le mamme temevano che rubassi. E credo che il profondo senso d’ingiustizia che sin da piccola provo verso il mondo e la piccola realtà in cui sono cresciuta mi abbia portata qui a Lesbo, in questa isola diventata famosa nel 2015 per l’immensa dimostrazione di solidarietà e accoglienza verso i rifugiati che ogni giorno sbarcavano sulle sue spiagge.

Welcome to the jungle, this is not a place for a human being” mi ripetevano tutti. A qualche chilometro da Mitilene e a pochi passi dal piccolo villaggio di Moria, si trova l’hotspot di Lesbo, una delle più grandi vergogne della “Fortezza Europa”. Una serie di barriere controllate dalla polizia all’ingresso e un lunghissimo filo spinato delimitano i grossi container bianchi messi uno accanto all’altro. Solo il personale autorizzato può accedervi e chi imbraccia una macchina fotografica è tenuto a debita distanza. Dentro ci sono più di sette mila persone ammassate nei container e nelle tende. La capienza massima di quell’ex centro di detenzione è di tremila.
Non c’è più posto per chi continua ogni giorno a sbarcare sulle spiagge rocciose di Skala Sikamineas ed è sistemato nel campo informale di fronte l’Hotspot.

Dopo aver concluso la fase di registrazione ed identificazione, ai nuovi arrivati danno una tenda da condividere con altre persone e dicono di sistemarla qui nel campo d’ulivo. Tutti devono sapere in che condizioni viviamo. Siamo bloccati qui in questa splendida isola che per noi è diventata una prigione. Finché la nostra domanda di protezione internazionale non viene esaminata siamo costretti a rimanere qui. C’è gente che sta qui da più di un anno, in attesa. E, se la risposta è negativa, ci rimandano indietro. Noi scappiamo dalla morte, dalla guerra e della miseria, vogliamo solo un posto sicuro in cui vivere. Ti sembra che questa accoglienza sia degna di un paese Europeo?” racconta Mohammed di Mosul, Iraq. No, non lo è.

Moria è un posto inumano, faccio fatica a non paragonarlo ai campi di concentramento nazisti che ho visto nei libri di scuola o nei film. In Europa, la culla della civiltà, la patria dei diritti umani, ancora una volta la vita degli esseri umani non vale nulla. In questo posto la dignità umana non esiste. Ho provato tanta vergogna e rabbia, mi sono sentita colpevole per gli immeritati privilegi che mi sono stati concessi per caso, per puro caso.
È così che mi sono sentita quando ho camminato per il corridoio centrale di un’enorme tenda, il pavimento di cartongesso sconnesso e ai lati innumerevoli letti a castelli nascosti da coperte di panno grigio a ricreare quel poco di privacy che si può avere. Non ricordo bene quanto ho impiegato per attraversare il lungo corridoio buio e rumoroso affollato da più di duecento persone. “Sarei potuta essere io al loro posto”, invece ero lì da “turista” con il mio passaporto europeo libera di viaggiare.

Qui arrivano per lo più siriani, curdi, iracheni e afghani che riescono ad attraversare il piccolo tratto di mare che divide Grecia e Turchia. Non sono gli unici, ci sono anche numerosi africani che alla schiavitù e alle torture libiche hanno preferito passare dalla Turchia per arrivare in Europa.
C’è chi ha visto la propria casa bombardata e i propri cari morire, chi è stato torturato dall’ISIS, chi è stato minacciato dai Talebani perché impegnato a lavorare con organizzazioni internazionali, chi durante l’estenuante viaggio ha perso i propri figli ai confini con l’Iran e la Turchia e chi inerme ha visto i propri cari sparire nell’oscurità del mare.
Due ore di mare attraversate con un gommone, ammucchiati uno sopra l’altro. Le condizioni del viaggio sono orribili. In un gommone che può trasportare al massimo dieci persone si viaggia in cinquanta – scrivo i numeri delle persone in lettere come mi ha insegnato Erri de Luca perché le cifre vanno bene per ogni contabilità, tranne che per le vite umane. Una volta arrivati sul luogo previsto per la partenza, ci si rende conto che le condizioni del viaggio non sono quelle che i trafficanti hanno promesso: al posto di uno scafo veloce ci sono un gommone e cinquanta persone che con Google Maps dovranno arrivare dall’altra parte del Mar Egeo. E non ci sono alternative, non ci si può tirare indietro, minacciati dagli smugglers non si può fare altro che salire sul quel gommone e sperare di arrivare sani e salvi in Grecia.

Dopo i grandi arrivi del 2015, quasi un milione in Grecia e più di 150 mila in Italia, la chiusura della rotta balcanica e l’irresponsabilità di Ungheria e Polonia, nel 2016 l’Unione Europea ha deciso di ricorrere agli hotspot per la gestione dell’immigrazione nei paesi confine dell’Europa, Italia e Grecia. E dopo l’accordo tra Turchia e UE del 20 Marzo 2016, chi arriva nelle isole greche è costretto a rimanerci fino a quando la sua domanda di protezione internazionale non verrà esaminata. I tempi di attesa sono lunghi, dai sei ai dodici mesi vivendo in un campo. Così gli hotspot, che prima servivano unicamente alle attività di registrazione e identificazione, sono diventati veri e propri centri di detenzione a cielo aperto. Dalle isole greche non si può scappare. L’obiettivo è bloccare gli arrivi alle isole e non permettere che i rifugiati raggiungano il Nord Europa. Nessuno vuole rimanere in Grecia, non c’è lavoro qui e in un modo o nell’altro si cerca di andare via. Tutti sognano la Svezia, l’Olanda e la Germania, dove spesso risiedono molti famigliari.

Nonostante le politiche di esternalizzazione e di lotta all’immigrazione irregolare, gli arrivi a Lesbo non si fermano. I nuovi arrivati dopo i primi giorni di detenzione amministrativa – che può durare anche più di 20 giorni, durante i quali vengono sbrigate le pratiche di registrazione e identificazione – sono sistemati nel campo informale a pochi passi dalla recinzione. Una tenda da dieci persone è condivisa da tre famiglie, mi raccontano che non c’è spazio nemmeno per allungare le gambe. I bambini sono costantemente malati. Le condizioni igieniche sono terribili, non c’è nemmeno l’acqua calda per farsi una doccia. Le donne raccontano di avere paura di andare in bagno di notte. Sono numerosi, infatti, gli episodi di molestie sessuali che si sono registrati. Non c’è sicurezza a Moria, i pochi poliziotti che ci sono non fanno nulla. Gli scontri sono una costante. Si litiga per un nonnulla, qualsiasi cosa è un buon pretesto per sfogare stress e malessere. In molti non ce la fanno a vivere in queste condizioni e sono diversi i casi di suicidio, per lo più di giovani uomini soli che sono qui senza una famiglia.

Le giornate a Moria si susseguono tutte uguali, una dietro l’altra. La mattina ci si sveglia presto per la distribuzione della colazione, una bottiglia d’acqua a testa, un croissant e un succo di frutta. Due ore di fila, qualche rissa qua e là durante l’attesa, poi altre due ore di fila per il pranzo e la cena. Così in un infinito loop, giorno dopo giorno.
Sono le solite vecchie storie. Esseri umani che sperano in una vita migliore. Esseri umani che sperano nella vita e che vogliono lasciarsi alle spalle la morte.
Nessuno sa quello che succede qui nella periferia d’Europa. Nessuno deve sapere. Più si tengono lontani questi invasori, meglio è, rischiano di mischiarsi a noi, di contaminare la nostra identità e le nostre tradizioni.

C’è invece chi vede l’accoglienza come un’opportunità di arricchimento.

A quelle persone che in questi anni non hanno avuto paura del diverso,

alla mia maestra d’italiano delle elementari che durante le sue ore libere m’insegnava l’italiano,

ai miei professori delle medie che mi hanno incoraggiata a battermi per ogni ingiustizia,

ai miei compagni di classe che invece mi hanno aperto la porta di casa e hanno condiviso con me i loro giochi,

ai miei amici che mi hanno amata nonostante fossi “l’albanese”

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