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Caschi Bianchi Guinea

Le mauvaise affaire ébola

Qual è il modo più efficace per contrastare ebola? Lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo nel modo migliore? La riflessione di Michele, CB di Caritas Italiana che era in Guinea quando ha cominciato a diffondersi il contagio.

Scritto da Michele Pasquale, Casco Bianco Caritas Italiana

Nel febbraio 2014 ho iniziato a svolgere il mio servizio civile all’estero nella regione forestale della Guinea Conakry presso la cittadina di N’Zérékoré (Africa Occidentale). Questa località è abitata da 8 etnie (Konianké, Malinké, Peulh, Soussou, Toma, Guerzé o Kpèlè, Manon, Kissien) che parlano altrettante lingue – senza contare il francese, lingua ufficiale – divise in 4 principali religioni (in ordine percentuale islam, protestanti, cattolici ed una costante presenza animista legata fortemente alla cultura religiosa di questo territorio), posta al confine con 4 stati (Costa d’Avorio, Liberia, Mali, Sierra Leone, sedi di scontri e guerre civili che negli ultimi anni hanno visto l’insediamento di numerosi profughi). Vorrei condividere la testimonianza che le circostanze e la casualità mi hanno portato a vivere sul terreno, in un momento in cui il mondo intero, compresi noi e gli abitanti della regione forestale, ancora non conosceva la presenza di questo virus già in silente espansione, da alcuni mesi, in Africa Occidentale.

Dopo essere atterrati all’aeroporto di Conakry, aver fatto slalom tra numerosi taxisti improvvisati – colpiti dalla vista di due bianchi con grosse valigie a seguito – e trovato il nostro referente sul campo io e Chiara, la mia compagna di servizio civile, raggiungemmo la sede pastorale. Qui, nell’attesa di essere ricevuti sotto il caldo, afoso sole guineano, feci due chiacchiere con gli autisti in servizio presso la diocesi. In pausa, seduti sulle panchine del lungo porticato che dava sul parcheggio dei mezzi di servizio, discutevano di lavoro e dei prossimi viaggi da intraprendere. Di fronte a noi si potevano ammirare dei maestosi alberi di mango dal grosso fusto da cui proveniva un rumore sordo, costante, presto fastidioso. Aguzzai lo sguardo. Nonostante fosse tardo pomeriggio quei rami erano carichi di grossi pipistrelli appesi a testa in giù, dal petto rosso-arancio e dall’ampia apertura alare, una specie non paragonabile ad ogni genere di volatile presente in Europa. Quando, dopo aver fotografato con il teleobiettivo quello strano spettacolo della natura, domandai all’autista locale – di etnia, abitudini e cultura differenti da colui che diverrà presto il nostro chaffeur di fiducia – qualche informazione riguardo quelle decine di souve-souris, mi rispose un po’ sorpreso: «Sono comparsi da qualche mese, prima non erano mai stati qui, in città. Quando li guardo penso: guarda quanta carne gratis appesa all’albero! Peccato non possa prenderla… alcuni sostengono che quei pipistrelli siano migrati in seguito allo sfruttamento del suolo e alla costruzione di nuove strade nel cuore delle foreste del sud guineano». Le mie orecchie ed i miei occhi “occidentali” non capirono, ovviamente, come potessero nutrirsi di quegli animali. Non potevo comprenderlo, non ancora. Quel breve dialogo diverrà una sorta di premonizione, l’anticipo di qualcosa di grosso, quasi un episodio uscito dall’inquietante incipit de “Gli uccelli” il film di Alfred Hitchcock.

Il secondo, imprevedibile “contatto” con ebola fu il 20 marzo 2014, quando mi recai con il direttore della Caritas locale guineana (OCPH) ad una riunione da cui ricavai spontaneamente, senza darci troppo peso, queste poche righe di sunto che avrei poi inviato alla mia responsabile:

«Presso la direzione regionale della salute di N’Zérékoré si è svolta in mattinata una riunione di concertazione tra i 29 principali partner internazionali e non presenti sul territorio per discutere le misure da prendere riguardo la recente (sconosciuta) epidemia scoppiata nella regione. Obiettivo del rapporto è informare degli sviluppi e prendere disposizioni per la gestione dei rischi. Le cause dell’epidemia non sono state ancora chiarite ma ad oggi si contano con certezza 17 casi, con 15 morti in 14 settimane nella zona compresa tra Macenta e Guéckédou. Sono state prese misure di ospedalizzazione con isolamento. Sintomi ricorrenti sono febbre, cefalea, diarrea, emorragia. Si attendono i risultati di un prelievo di sangue inviato a Conakry con un volo speciale mentre una commisione mista formata dal ministero della salute e da OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) continua le investigazioni sulle cause di questa ondata di mortalità. Per ora i cadaveri sono stati messi in teli di plastica e seppelliti isolatamente».

La sera seguente ci recammo a mangiare una bistecca presso l’unico ristorante della città. In Guinea Conakry non è affatto comune il consumo di carne, di qualunque tipo; da qui l’origine del fenomeno “bushmeat“, il consumo di selvaggina della foresta, tra cui i pipistrelli, principale incubatore naturale e causa dell’epidemia. In quell’occasione incontrammo un disponibile poliziotto spagnolo, che collaborava con le forze dell’ordine ad un programma governativo contro la corruzione. C’informò di una notizia che aveva appena ricevuto dai suoi superiori in Europa: i risultati dei campioni di sangue giunti a Lione dopo due settimane di viaggio erano definitivi…si trattava di “ebola”. Ricordai perfettamente quella parola, “ebola”. Nel 2012 mi trovavo in Rwanda a fare ricerca per la tesi quando un giorno sentii parlare della psicosi della “stretta di mano” che aveva raggiunto Kigali dall’Uganda, ove un’epidemia si stava espandendo soprattutto a Kampala. Anche attraverso il sudore delle strette di mano, per l’appunto. Ci allarmammo. Scrissi subito ai miei responsabili in Italia e cercai sul web ogni articolo inerente. La mattina seguente vennero pubblicati i risultati ed in modo esponenziale le testate internazionali lanciarono l’allarme.
A livello locale alcuni commercianti soprattutto libanesi – commercianti molto attenti, scaltri e numerosi in tutto il West Africa – cominciarono a controllare che ogni cliente entrato nel loro negozio si pulisse le mani con una soluzione al cloro gentilmente offerta. Lo stesso avvenne con le saponette ed i secchi d’acqua fuori dalle banche. La notizia si era diffusa. Tuttavia la mia impressione generale fu che la popolazione non si curasse affatto del problema e che anzi sottovalutasse enormemente, per disinformazione, cosa stesse succedendo di lì a pochi chilometri. Domandando un’opinione sull’argomento ricevetti spesso disarmanti, ingenue considerazioni come «mio cugino di Macenta e la sua famiglia stanno bene, non c’è alcun problema…». Questo genere di risposte mi aprirono gli occhi su quale fosse l’errata, diffusa percezione di questo “mauvaise affaire ébola“. Il servizio civile di me e Chiara s’interrompeva pochi giorni dopo con una sorta di “fuga” attraverso la frontiera terrestre liberiana e l’aeroporto di Monrovia, diretti a Dakar. Era il 26 marzo. Da lì a breve, proprio il Senegal avrebbe inaspettatamente chiuso le sue frontiere terrestri: uno dei molti provvedimenti che preannunciarono allarmi ed emergenze ben più grandi.

N’Zérékoré (NZE) dista meno di cento chilometri da Guéckédou, epicentro dell’epidemia che ora, e solo ora, occupa l’attenzione dei media internazionali dopo un lungo periodo in cui l’informazione appariva esclusivamente su pochi canali specializzati come BBC Africa, Guinée News e France 24. D’altronde solo dopo che l’epidemia sembrava potesse arrivare in quel “nord del mondo” che, come sosteneva lo scorso aprile D.Quammen sul New York Times[1], si trovava a scoprire di colpo dove fosse la Guinea e cosa succedesse nella sua capitale da un giorno all’altro, gli obiettivi occidentali rivolsero le loro lenti su questa fettina di mondo. Pareva quasi la scoperta di un nuovo pianeta nel sistema solare!

Tra il mese di marzo e maggio (periodo nel quale seguivamo costantemente l’evolversi della situazione dalla capitale senegalese inoltrando le informazioni agli uffici responsabili) in Italia le notizie continuavano ad essere sporadiche, frammentarie, se non del tutto errate, probabilmente ricavate da frettolose traduzioni e fonti non controllate.
Due sono stati gli episodi che mi hanno particolarmente amareggiato riguardo la scarsa qualità giornalistica del nostro paese: un canale di larghissimo consumo definiva in modo iper-semplicistico e irritante la “ghiottoneria” guineana per «la zuppa di pipistrello» come causa principale della diffusione dell’ebola (mentre non fu certo un “peccato di gola” ad aver causato l’epidemia); secondo, una psicosi che sfiorava il razzismo più insensato accusava indiscriminatamente, su un piccolo giornale web, tutti coloro che salivano su un barcone essere potenziali portatori di ebola. Poco importava che dalla Guinea all’Eritrea alla Libia (i due principali paesi di provenienza delle imbarcazioni di fortuna dirette verso il sud Italia) ci fossero migliaia di chilometri e che fosse praticamente impossibile risalire da Conakry l’Oceano Atlantico per poi passare dal Mediterraneo senza crepare di ebola mesi prima. Poco importava, infine, che si parlasse di “persone” che tentavano, disperate, di trovare una valida alternativa alle loro vite e che nulla avevano a che fare con l’epidemia. La Sicilia (dunque l’Europa) stava definitivamente, senza dubbio per essere invasa e contagiata in un ingiustificato scenario apocalittico. Nonostante tutto, questo periodo di ricerca su testate nazionali e internazionali fu un interessante pietra di paragone tra le testimonianze raccolte in loco e la rappresentazione “su carta” delle stesse, tra differenti visioni del mondo (popolazione locale e mass media), tra la complessità del quotidiano e l’estrema semplificazione racchiusa in articoli confezionati per catturare l’attenzione o rispondere maldestramente a paure diffuse con falsi colpi di scena e pregiudizi a buon mercato. Fu una bella lezione.

Si sta attualmente discutendo sulle cause che tarderebbero la circoscrizione del virus. Secondo alcuni le strategie del WHO (World Health Organisation) finora utilizzate sono risultate del tutto fallimentari – «The Ebola leadership gap[2]», intitola Politico -, tanto da far dilagare l’epidemia in tre limitrofi stati del West Africa per poi arrivare a toccare Nigeria e Congo. La paura che l’epidemia potesse raggiungere Europa e Americhe (perché mai nessuno accenna ad Asia e Oceania?) cresce di giorno in giorno.

Cosa fare, come comprendere questo preoccupante fenomeno? Spesso dati e numeri – le ipervalutate ricerche quantitative – non danno sufficienti strumenti per poter interpretare cosa davvero stia accadendo in un determinato luogo. La lettura di un contesto che non tenga conto delle abitudini e delle condizioni di vita quotidiane (alimentari, sanitarie, educative, storiche, ecc.), ovvero quel complesso insieme di ragioni, pratiche culturali e interculturali che sottendono alle stesse e che non possono essere descritte da rassicuranti tabelle piene di dati e percentuali, rischia di condurre l’analisi in un vicolo cieco. Questa la ragione per cui in alcuni articoli sono proprio gli antropologi ad essere tirati in causa per cercare d’indagare alcune possibili risposte all’emergenza ebola[3].
Perché la popolazione si è dimostrata non solo scarsamente collaborativa, ma in alcuni casi persino violenta con il personale internazionale? Perché tale risposta negativa alla presenza sul territorio di una équipe medico-sanitaria giunta per aiutare i locali? Alcuni tratti della cultura del sud della Guinea possono essere la causa scatenante?

Alcuni esempi chiarificatori. L’habitus alimentare del sud della Guinea che prevede il consumo di cacciagione della foresta, prima causa dello sviluppo dell’epidemia, è ben lungi dallo scomparire. Ciò non dev’essere sottovalutato: il rifiuto di collaborare è anche il rifiuto di rinunciare a consolidate pratiche della propria cultura di provenienza. Sin dai primi mesi la presenza di MSF sul territorio è stata percepita, seppur da una ristretta minoranza, come un’ingerenza esterna[4]. Gli “stranieri” accusati d’aver portato una terribile causa di morte, prima non esistente. Stranieri che trascinano via dalle proprie case i propri cari senza sapere se potranno rivederli (non succede mai, se non in rarissimi casi) e partecipare ai loro funerali (i seppellimenti sono immediati, in luoghi isolati, operato da personale medico specializzato). Lo scorso agosto presso Monrovia, Liberia, si è ripetuto un episodio violento. A West Point un gruppo inferocito ha fatto fuggire 17 casi sospetti di ebola da una struttura sanitaria in cui erano tenuti in quarantena[5].

Di recente sono stato colpito da due episodi accaduti proprio nei luoghi ove stavamo svolgendo servizio civile. Il primo, l’azione di disinfezione al mercato centrale della cittadina di N’Zérékoré – ove anche noi facevamo la spesa pochi mesi prima – che ha causato scontri con gli operatori sanitari per la ribellione della popolazione[6]. Evidente, in questa operazione, l’errata lettura del contesto culturale al quale ci si è approcciati. Un gesto invasivo come gettare della schiuma disinfettante tra persone totalmente disinformate sulle modalità d’intervento, senza possibilità di replica, discussione, limitazione, è molto rischioso. Si può forse comprendere (anche se non giustificare) come la popolazione potesse sentirsi ingannata e non provare alcuna fiducia negli operatori sul campo. Ebola, da questo punto di vista, diviene una menzogna. Riemerge, ancora una volta, la necessità già accennata di un approccio «culturally sensitive and appropriate[7]». Secondo, grave fatto di cronaca. L’uccisione di otto operatori medici e sanitari nel vicino villaggio di Wome. L’episodio mi ha fatto rabbrividire non solo perché è stato il terrificante sviluppo dei fatti precedenti, ma anche per la vicinanza con i luoghi in cui svolgevamo le regolari missioni sul campo[8].

Il rischio di denigrare “l’altro”come ottuso, ignorante se non “primitivo” (quest’ultimo, tema classico nell’antropologia culturale) si può accompagnare, se non controllato, a quello di un sentimento rabbioso, aggressivo ed infine violento dell’opinione pubblica che potrà portare a delle errate scelte di politica estera per risolvere il “Problema”. Cosa c’è di più terribile se non la paura di un’epidemia che non ha vaccino o profilassi, con una mortalità in alcuni casi del 95%? Come gestire la comunicazione con la popolazione locale in modo fruttuoso, affinché la collaborazione porti ad una definitiva circoscrizione della febbre emorragica? Cosa troviamo alla base di questi fatti, se non lo scontro tra differenti punti di vista sul mondo che poco conoscono uno dell’altro?

In un noto articolo apparso sul Corriere della Sera (poi ripubblicato da Longanesi nella raccolta “Lettere contro la Guerra”) Tiziano Terzani, in risposta ad Oriana Fallaci, ricorda la necessità di cercare e indagare «le ragioni dell’altro» onde evitare ulteriori scontri proprio nel difficile day after 11 settembre. Che alcune dinamiche si ripetano? Come capire questa popolazione a “noi” così lontana, ostile ad ogni forma d’ingerenza straniera, tanto malfidente al punto di non credere all’esistenza del virus ebola? Come, potrebbe pensare qualcuno, non prendere una decisione forte, violenta se necessaria, per salvare noi ed i nostri pargoli dal “grande pericolo che viene dall’Africa”? Forse la soluzione del ‘Problema’ non passa per un intervento forzato, coercitivo – se non armato, nel prossimo futuro – che già spinse la popolazione ad attaccare le sedi del quartiere generale MSF (Medici Senza Frontiere) fin dal primissimo mese di aprile[9].

Quali sono le cause di questo secco rifiuto per tutto ciò che è Occidentale, ‘bianco’, moderno? Invertiamo i punti di vista. Che effetto possono semplicemente fare quei medici vestiti da “astronauti” ad una popolazione che conosce il proprio villaggio, la sua foresta, la dimensione di una vita che non passa per mass media, agi e benessere materiale? Se un vostro parente viene portato in quarantena in un centro gestito da “tubabu“, i (ricchi) bianchi, perché non uscirà mai vivo da lì? Se un mio parente deve davvero morire, perché non farlo a casa sua? Perché da sempre abbiamo mangiato “viande de brousse”, selvaggina della foresta (cervo, agoûti – grosso roditore della foresta -, pipistrello, in alcuni casi scimmie) ma questa ebola non è mai esistita? Che siano questi “blancs”, con i loro giganteschi interessi per le miniere di ferro nei pressi del parco Mount Nymba e le sterminate piantagioni di albero della gomma al confine con la Liberia, ad aver inventato questa malattia per appropriarsi definitivamente della nostra «ricchissima terra popolata da una popolazione maledetta»[10]? Prima di tutto comprendere – non necessariamente giustificare – i costumi, gli usi, le ragioni e le paure dei nativi. In altre parole, la loro “cultura”: «understanding local customs — and fears — can go a long way in getting communities to cooperate with international health care workers […]», riferisce non a caso Barry Hewlett, antropologo medico presso la Washington State University[11]. Che sia proprio questa la via da seguire per ottenere maggiore collaborazione, consapevolezza e, dunque, una potenziale “buona soluzione”?

ADDENDUM
Leggo sul sito del CDC di Atlanta che negli USA si è registrato il caso di ebola “numero zero”[12]. Mai, sotto il caldo, afoso sole guineano, avrei immaginato si sarebbe arrivati a tale portata e gravità. Mi domando, perplesso, come e quando potrà rientrare questa difficile situazione che riguarda tutti. Come e quando le strategie per affrontare il “Problema” saranno differenti.

Foto: Flickr/European Commission DG ECHOFlickr/International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies

[1] «There’s nothing like an outbreak of Ebola virus disease to bring a small, struggling African nation to international notice. One week we couldn’t place it on a map; the next week, after Ebola virus disease strikes, we know the body count and the name of the capital and whether its airport has closed»; Fonte: http://www.nytimes.com/2014/04/10/opinion/ebola-virus-a-grim-african-reality.html?_r=0

[3] «Today, efforts to contain such outbreaks must be “culturally sensitive and appropriate […] Otherwise people are running away from actual care that is intended to help them […] One key mission for anthropologists is to help doctors understand how a local population perceives disease”». Fonte: http://www.npr.org/blogs/health/2014/04/02/298369305/why-anthropologists-join-an-ebola-outbreak-team

[6] «Health workers and the hospital in Nzerekore were attacked by people reportedly shouting: “Ebola is a lie”»; fonte: http://www.bbc.com/news/world-africa-28984259

[10] Traduzione di un proverbio locale riferitomi sul campo in diverse occasioni.

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