• Cb Apg23, 2008

Caschi Bianchi Cile

Il miracolo cileno (parte I)

I media presentano il Cile come un modello per i paesi in via di sviluppo. La prima tappa di un’indagine nel mondo delle imprese ci porta a incontrare due sindacalisti: Jaime ed Elisabeth lavorano nel call center di un’azienda spagnola, leader nel mercato cileno con 8.000 dipendenti. 20 minuti di pausa in 9 ore di lavoro sono una conquista e il diritto allo sciopero è garantito solo formalmente. Manca una forte cultura sindacale e molti si trovano a lottare da soli.

Scritto da Alessandro Lodi. Foto di Abele Gasparini.

Il “Miracolo cileno” è un termine coniato dall’economista Milton Friedman per descrivere il modello economico liberale introdotto in Cile durante la dittatura di Augusto Pinochet. Comunemente questa espressione viene oggi utilizzata dai principali mezzi di informazione internazionali per raccontare il Cile come un paese dotato di una economia stabile e in continua e forte crescita, alta produttività, conti pubblici solidi e più in generale, una gestione delle variabili macroeconomiche che l’OCSE(1) definisce “esemplare”(2).

Il 16 gennaio 2008 La Nacion, uno dei quotidiani più importanti del Cile, ha inoltre pubblicato i risultati dell’indagine “The 2008 Index of Economic Freedom” svolta dalla Heritage Foundation (3). Il prestigioso centro studi statunitense, analizzando i dati economici, finanziari e sociali di 162 paesi, ha stilato una speciale classifica sulla base della “libertà economica” nella quale il Cile si colloca all’ottavo posto tra le economie più aperte del mondo, guadagnando tre posizioni rispetto al 2007.

Il Cile viene quindi inevitabilmente percepito dall’opinione pubblica mondiale come un paese relativamente ricco e dinamico, sostanzialamente un modello per numerosi altri paesi “in via di sviluppo”.

L’immagine che i mezzi di comunicazione e le grandi fondazioni internazionali diffondono del Cile corrisponde alla realtà sociale del paese? Quali sono le conseguenze sociali che tale sistema produce?
Per rispondere a queste e ad altre domande ho deciso di svolgere una piccola ricerca contattando professori universitari, lavoratori, sindacalisti o semplicemente dando voce alle tante persone che sto incontrando in questa mia esperienza cilena.
La prima tappa della mia piccola indagine mi porta al numero 184 di calle Corte Suprema , nel centro di Santiago, a poche centinaia di metri dal Palazzo della Moneda, dove ha la sua sede il Sindicato Interempresa Nacional de Telecomunicaciones (SINATE).
Visto da qui il Cile non è molto diverso da come viene descritto dai mezzi ufficiali di comunicazione. Manager in completo scuro, auto di grossa cilindrata, maestosi palazzi di vetro, gli artisti di Plaza de Armas, gli studenti e i turisti che affollano i numerosi bar del Barrio Bellavista, l’infinita distesa di negozi del Paseo Ahumada, l’ordine e la pulizia dei caratteristici quartieri del centro di Santiago, l’imponente Torre Entel, tutto fa pensare a Santiago come la capitale di un paese dinamico e accogliente.

Vengo ricevuto in un ampio salone illuminato da tre grandi finestre, sulle cui pareti, di un blu elettrico, domina una gigantografia de “Il Quarto Stato” del pittore piemontese Giuseppe Pellizza da Volpedo. Qui incontro Jaime e Elisabeth che, nonostante siano provati da una lunga giornata di trattative sindacali, mi accolgono con grande entusiasmo.

Quattro anni passati lavorando ad un progetto di radio comunitaria indipendente, poi fallito, Jaime e Elisabeth lavorano ora entrambi in un call center. L’azienda, con sede legale in Spagna, leader nel mercato cileno con 8.000 dipendenti, quasi tutti studenti e donne, impegnati in call center sparsi in tutto il paese, e con sedi operative in tutta l’America Latina, è specializzato nel gestire l’assistenza ai clienti per grandi gruppi internazionali e multinazionali.
In una realtà come questa, a contatto con la forte precarietà del lavoro e con le quotidiane ingiustizie subite anche in prima persona, Jaime e Elisabeth decidono di dedicarsi, sacrificando il proprio tempo libero e senza alcuna retribuzione, all’attività sindacale.

Quando parlo di “Miracolo Cileno”, immediatamente Jaime scuote la testa e con un sorriso amaro sempre stampato sul volto inizia a raccontarmi la sua esperienza di lavoratore e sindacalista.
L’azienda agisce in modo scientifico per limitare l’organizzazione dei dipendenti e quindi il loro potere contrattuale. Oltre ai licenziamenti mirati dei dipendenti più sindacalizzati e conflittivi, per evitare che si crei una struttura sindacale permanente in azienda, i turni lavorativi vengono cambiati improvvisamente senza alcun preavviso, gli operatori continuamente spostati di sede e ogni 2 anni l’azienda realizza un completo “turn over” dei dipendenti.Viene creata artificialmente confusione tra i lavoratori proponendo molteplici forme contrattuali differenti, rendendo di fatto molto difficile il confronto sui livelli salariali e più in generale sui diritti.

L’azienda ha inoltre istituito un proprio sindacato, legato di fatto alla proprietà, che sottrae iscritti al SINATE promettendo ai lavoratori, non maggiori diritti e livelli salariali, ma prestiti in denaro o sconti per l’acquisto di beni e servizi.
I risultati di questa strategia aziendale sono inanzitutto visibili nei livelli salariali. Gli stipendi dipendono dai risultati raggiunti e prevedono una quota fissa che, nel caso di Jaime, è di soli 32.000 pesos mensili, corrispondenti a 45€, appena sufficienti per pagare i costosissimi mezzi di trasporto pubblico. Per non parlare dei ritmi di lavoro a dir poco insostenibili: ai lavoratori infatti sono concessi 20 – 25 minuti di pausa oltre alla pausa pranzo, in una giornata lavorativa di 9 ore, ed eventuali soste più lunghe vengono scaricate dallo stipendio. Paradossalmente la possibilità di avere questi 20 minuti è stata una conquista, se si pensa che, almeno fino al 2002, ai lavoratori veniva imposto l’uso del pannolino per non interrompere l’attività lavorativa, prassi drammaticamente diffusa ancora oggi in molte altre aziende.
Al tempo stesso l’impresa vanta nel 2006, guadagni superiori ai 1.030 milloni di €, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente.

Come è possibile un tale sfruttamento dei lavoratori? Elisabeth a proposito ha le idee molto chiare. La legislazione del lavoro non è precisa e lascia ampi margini di interpretazione. In particolare l’articolo 160 del Codice del Lavoro (4) prevede al comma 1 la possibilità di terminare senza alcuna indennizzazione un contratto di lavoro in caso di frode all’impresa da parte del lavoratore. Quasi tutti i licenziamenti avvengono, in modo strumentale, sulla base di questa motivazione generica e di fatto fittizia. Ovvimente il lavoratore ha il diritto di fare ricorso, ma tale diritto rimane inapplicato, in quanto l’azienda costringerebbe il dipendente a 2 anni di udienze, scoraggiandolo di fatto ad agire per vie legali.
Il diritto allo sciopero è garantito, ma solo durante il processo di contrattazione contrattuale che si apre nelle singole imprese ogni 2 o 3 anni. In questo modo l’impresa può sostituire i lavoratori in sciopero, aggirando il divieto di legge, assumendo a tempo determinato alcuni lavoratori nelle settimane che precedono l’apertura della trattativa sindacale, rendendo inefficace l’eventuale protesta. Manca inoltre il riconoscimento formale del diritto allo sciopero generale. Il diritto allo sciopero è concesso solo ai lavoratori direttamente interessati dalla trattativa sindacale in atto nella singola azienda: chi, per solidarietà, decidesse di unirsi a loro rischierebbe il licenziamento per abbandono del posto di lavoro.
Di fondo manca tutt’oggi in Cile una forte cultura sindacale se si pensa che solo l’11% dei lavoratori è iscritto ad un sindacato, mentre appena l’8% è coperto da un contratto collettivo(5). I lavoratori, quindi, si trovano spesso intrappolati tra due alternative: lottare da soli, senza alcun appoggio, spesso contro gli studi legali di grandi multinazionali, molte delle quali sono Europee, o non lottare preferendo il silenzio e la sottomissione.

Cercando di capire con Elisabeth le cause profonde della scarsa organizzazione dei lavoratori cileni, emerge un tema che ancora segna la storia recente del Cile. La dittatura militare. Quella esperienza drammatica ha distrutto la speranza e la voglia di sognare di un popolo, il suo spirito comunitario e solidaristico, abbandonando un paese intero alla paura e all’individualismo.

Emerge così un’altra faccia del “miracolo cileno”, un sistema che genera ricchezza, ma che la concentra nelle mani di poche persone, un sistema che ha enormi costi sociali che vengono però scaricati sulla fascia più debole e indifesa della popolazione, un sistema dal quale anche noi europei traiamo, grazie alle nostre grandi imprese, a volte pubbliche, grandi benefici economici.
Elisabeth e Jaime mi salutano con una speranza. I giovani cileni, nati con la democrazia e che quindi non hanno conosciuto la repressione del regime militare, dimostrano una consapevolezza dei propri diritti, un dinamismo e uno spirito critico che da queste parte non si vedevano da molti anni. Nei giovani riaffiora quindi quella determinazione a camminare insieme, che ricorda il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, lasciandosi alle spalle l’oscuirità dei diritti calpestati.

Note:

1. OCSE = Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
2. OECD, Economic survey of Chile 2007
3. http://www.heritage.org
4. http://www.dt.gob.cl/legislacion/1611/article-59096.html
5. Fonte: Observatorio Laboral Chile http://www.olab.c

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