La relazione con le persone senza fissa dimora alle volte può essere difficile, non solo perché per la maggior parte si tratta di uomini, ma anche per le differenze idiomatiche e culturali che si fanno sempre sentire e a cui si aggiungono il peso e le fatiche di un’esperienza dura come quella di strada.
Ma da questa relazione è sempre più quello che ricevi che quello che dai: questo almeno è quello che ho imparato in questi mesi di servizio civile a Bucarest, in Romania e, soprattutto, da quando condivido la vita della casa con 3 di questi uomini, a cui noi volontari e volontarie ci riferiamo affettuosamente come “i ragazzi”.
La quotidianità con loro è una risorsa preziosa e bellissima, non solo perché permette di conoscersi reciprocamente meglio, ma anche perché è un’opportunità per entrambi di crescere: da una parte loro imparano a prendersi cura della casa, a seguire le regole della comunità e della convivenza, dall’altra io ho la possibilità di conoscere più a fondo la loro vita, il loro passato, ma anche la loro cultura e la loro lingua, ovvero quella rumena.
La relazione con chi vive in condizioni di fragilità va coltivata, con costanza e pazienza, ma prima ancora va cercata, spesso al di fuori della propria casa.
Proprio questo è lo scopo dell’Unità di Strada (Uds), che consiste per l’appunto nell’incontro con le persone senza fissa dimora, ovvero coloro che non hanno una casa e che vivono in condizioni estremamente precarie, magari spostandosi di giorno in giorno, portandosi appresso tutti i loro averi: questo incontro per noi avviene secondo due diverse modalità.
Il martedì sera si prepara un po’ di pasta e qualche panino e ci posizioniamo davanti alla Gara de Nord, una delle stazioni ferroviarie principali di Bucarest: in questo caso sono le persone che ci vengono a cercare e “ci incontrano”, o perché già ci conoscono e sanno che ci troveranno lì o perché s’imbattono in noi per caso.
Il giovedì sera invece l’attività si svolge in modo itinerante, ovvero siamo noi che, attrezzati di thermos con thè caldo e biscotti, andiamo a cercare le persone.
Mentre alcuni non hanno particolarmente voglia di chiacchierare, la maggior parte di loro dopo qualche domanda iniziale si dimostra contenta di poter conversare un po’, approfittando del momento per raccontarci alcuni pezzi del loro passato e della loro vita quotidiana.
A parer mio è questa probabilmente la modalità che ci regala più emozioni e sorrisi: anche se durante una serata dovessimo incontrare una sola persona, quell’uscita sarebbe comunque valsa la pena. Anzi, proprio durante uno di questi giri ho avuto una delle chiacchierate che mi è rimasta più impressa e che penso possa racchiudere bene l’essenza dell’Unità di Strada: vicino al centro della città appostato sotto un portico abbiamo conosciuto questo simpatico signore di nome Sorin, con cui abbiamo conversato in rumeno ed inglese. Quello che mi ha colpito di più di questa conversazione è il ringraziamento che ci ha dato alla fine, rivelandoci che eravamo le prime persone con cui parlava durante la giornata, soprattutto perché la gran parte della gente, vedendolo sdraiato sotto un portico con addosso una coperta e lo zaino come cuscino si soffermava a quella prima impressione e proseguiva dritto, mentre come ci ha detto lui stesso “a volte basterebbero 5 minuti per cambiare la propria opinione e abbattere questi stereotipi”.
Penso che Sorin abbia riassunto bene la nostra missione qui, portare un po’ di presenza umana a coloro che magari non ne ricevono abbastanza.
Ogni persona che incontriamo è unica, con il proprio passato, il proprio vissuto, le proprie difficoltà e le proprie emozioni, tutti con l’esperienza della vita di strada anche se in momenti e per periodi diversi: molti di coloro che incontriamo si sono ritrovati in strada dopo un brutto divorzio o dopo la perdita del lavoro, spesso anche a causa dell’alcool. Molti hanno figli o parenti, ma sono pochi i casi in cui hanno mantenuto il contatto con loro.
Molte persone poi hanno cercato fortuna e hanno lavorato per un po’ nei differenti paesi dell’Europa Occidentale, soprattutto in Spagna, Inghilterra e Italia, con il risultato che in molti casi conversando con loro si può ricorrere facilmente ad una di queste lingue.
In Romania poi, incontriamo molti uomini vittime della politica sulle nascite di Ceausescu e che per questo hanno iniziato la vita della strada in giovane età spesso anche dopo aver passato un periodo di tempo negli orfanotrofi.
Durante gli anni del comunismo infatti le famiglie venivano fortemente incoraggiate ad avere molti figli, poiché ciò avrebbe comportato più forza lavoro e quindi una maggior produzione. Secondo questa logica durante gli anni ‘60 il dittatore rumeno introdusse una serie di leggi, in base alle quali l’aborto e la contraccezione venivano severamente proibiti e le gravidanze dovevano essere monitorate rigorosamente: questa rigida politica portò a delle famiglie eccessivamente numerose costringendo in più casi i genitori ad “affidare uno o più figli allo Stato”; nella pratica i bambini venivano rinchiusi in questi terribili istituti in cui vivevano in condizioni indicibili.
Da queste strutture l’uscita era fissata ai 18 anni, se non scappavano prima, ma senza alcuna forma di preparazione o formazione lavorativa, con l’inevitabile conseguenza che molti finivano in strada. Ciò che però mi fa più riflettere a riguardo è che questi terribili istituti vennero chiusi solo con l’entrata nell’Unione Europa nel 2007 che aveva fissato come clausola necessaria ed obbligatoria la fine di questi centri.
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