Siamo arrivati da poche settimane in Grecia e abbiamo già ricevuto notizia di tre respingimenti nelle acque dell’Egeo, tra Grecia e Turchia. Le poche informazioni che abbiamo, grazie al lavoro dell’organizzazione Aegean Boat Report, ci dicono di un primo respingimento due settimane fa di 41 persone, tra cui più di 20 bambini al largo dell’isola Chios, della morte di una donna durante i soccorsi di un barcone, e infine di 23 persone di origine afgana che sono state picchiate, torturate e respinte al largo di Lesbo.
La frequenza con cui avvengono questi eventi rischia spesso di normalizzare il fenomeno e di rendere queste violazioni del Diritto internazionale la norma, piuttosto che un reato. La visibilità e la copertura mediatica di questi fenomeni ormai si riduce all’impegno delle ONG presenti sul campo, il cui lavoro viene sempre più ostacolato dalle forze di polizia greche e dalle autorità, che spesso negano questi avvenimenti.
Nel nostro lavoro, a fronte di queste notizie e questi eventi, ci chiediamo spesso “con quale facilità supereremo queste morti? Saprò ancora soffrire ed empatizzare o farò scorrere queste notizie sulla corazza dell’indifferenza?”.
Spesso queste domande, questa frustrazione, sono grida che si perdono nel deserto del silenzio generale, ma noi continueremo a gridare per queste persone di cui conosciamo il nome, il volto e il sorriso. Infatti, attraverso le nostre attività sul campo, l’ascolto, lo stare insieme, l’essere presenti e al fianco di chi si ritrova in situazioni di vulnerabilità, ritroviamo l’umanità di cui tanto siamo affamati.
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