Caschi Bianchi Zambia

IN ATTESA MA MAI FERMA

Solidarietà, condivisione diretta e inclusione sono i valori che Marta cercava quando ha scelto di svolgere servizio civile con l’ass. Comunità Papa Giovanni XXIII. Dopo pochi mesi dall’inizio del servizio civile e in attesa del visto per partire per lo Zambia, Marta ci racconta emozioni, paure, motivazioni e aspettative che l’hanno spinta ad intraprendere questo cammino.

Scritto da Marta Barja Afonso, Casco Bianco in servizio civile con Apg23 a Mansa

A due mesi dall’inizio del Servizio Civile come Casco Bianco, sono ancora piena di aspettative, dubbi e paure che, piano piano stanno trovando una risposta, visto che sono ancora tra il mio paese di origine, la Spagna, e l’Italia in attesa del visto per poter partire per lo Zambia, il Paese in cui svolgerò il mio Servizio Civile Universale. La data della mia partenza è prevista per il mese di settembre.

Nonostante le incertezze, i problemi e gli imprevisti degli ultimi mesi, dovuti principalmente alla situazione globale generata dal Covid 19 e al ritardo nel rilascio del visto, che hanno posticipato la mia partenza all’estero, sono ancora convinta di aver preso la decisione giusta. Ancora non sono arrivata in Africa, ma già la sento CASA MIA grazie ai racconti dei miei colleghi che si trovano già in Zambia e alle altre persone che hanno già vissuto un’esperienza simile e stanno condividendo con me le loro esperienze, sentimenti ed emozioni vissuti in Africa.

Le motivazioni e le aspettative che mi hanno spinta ad intraprendere questa esperienza sono fondamentalmente legate alle necessità di uscire dalla mia comfort zone, di vedere un’altra parte del mondo e, soprattutto, di mettermi in gioco e sperimentare la condivisione diretta, uno dei valori più importanti che promuove la Comunità Papa Giovanni XXIII.

Tuttavia, prima di intraprendere questa avventura avevo dubbi e paure che però non hanno mai superato gli aspetti positivi e la motivazione di far parte di questo progetto. Gli aspetti negativi erano quasi tutti legati all’attuale situazione covid che, come stiamo vedendo, sta allungando i processi burocratici e, soprattutto, la pandemia non è ancora finita.

Siamo in servizio da due mesi: alcuni volontari hanno già iniziato il volontariato in territorio africano, altri invece, come la sottoscritta, lo hanno iniziato in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII in Italia in attesa sia del vaccino covid che del visto.

Il primo mese del progetto è stato dedicato ad una formazione online con tutti i Caschi Bianchi in cui sono stati affrontati concetti come: l’obiezione di coscienza, la Carta di impegno etico, i Diritti Umani, la nonviolenza nella trasformazione dei conflitti, il rapporto UPR, la protezione civile, ecc. Nozioni che ci hanno aiutato a capire il significato del Servizio Civile e comprendere il nostro ruolo di Caschi Bianchi nei progetti scelti. Tali concetti ci hanno dato una visione globale di tutti gli elementi e i fattori importanti che entrano in gioco nella trasformazione sociale e nella risoluzione dei conflitti attraverso tecniche basate sulla nonviolenza.

Inoltre, durante questo mese di formazione, noi volontari abbiamo avuto l’opportunità di conoscerci in presenza a San Marino per una settimana. Durante tale periodo, abbiamo affrontato diversi temi, tra cui il teatro dell’oppresso come mezzo di conoscenza e trasformazione dei conflitti interpersonali e sociali, la comunicazione interpersonale e la gestione del conflitto, il rapporto con i destinatari del progetto, ecc. Tutte le giornate sono state molto interessanti e i contenuti molto utili sia a livello professionale che personale. A livello personale, il teatro dell’oppresso è stato uno dei temi più interessanti, soprattutto per il suo aspetto pratico. Infatti, questa tecnica cerca la trasformazione sociale, attraverso rappresentazioni scenografiche, di storie che raccontano situazioni di ingiustizia che spesso gli esseri umani devono affrontare nella vita. Questa tecnica ci ha permesso di mostrare storie attraverso una rappresentazione teatrale cercando di dare visibilità alle ingiustizie per trovare delle soluzioni. Le scene mostravano storie tra un oppressore e un oppresso.

Questa settimana è stata molto arricchente, non solo per i contenuti su cui si è lavorato, ma perché è stato uno spazio di cui tutti avevamo bisogno per condividere le nostre preoccupazioni, paure e aspettative tra di noi ma anche con i nostri tutor che ci accompagnano in questo percorso.

Appena finita la formazione, ho iniziato il mio servizio in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII a Bergamo, un Centro Diurno per disabili che si trova in un piccolissimo paese chiamato Camisano, situato a pochi chilometri da Bergamo e Palazzolo, la città in cui ho vissuto durante il mio soggiorno in Italia. Questo Centro, è gestito da circa 20 persone con disabilità che, oltre a frequentare il centro, svolgono diversi mestieri affinché il centro stesso possa sopravvivere. Inoltre, ogni giorno è differente poiché si realizzano attività e laboratori di vari genere: musicoterapia, ergoterapia, psicomotricità, ecc. Con queste attività, le persone con disabilità migliorano le loro capacità e competenze, motivo per il quale il centro è una parte essenziale della loro vita.

In questa avventura, una di quelle persone di cui conserverò un ricordo speciale quando mi guarderò indietro tra qualche anno, è Laura, la responsabile del Centro Diurno, con la quale ho sentito un grande legame fin da quando ci siamo incontrate per la prima volta in aeroporto. Entrambe condividiamo gli stessi interessi, gusti e hobby, nonché alcuni tratti della nostra personalità. Mi ha permesso di approfondire la cultura africana attraverso i suoi racconti e fotografie visto che lei ha attraversato la Tanzania da nord a sud. Inoltre, mi ha accolto come una della famiglia all’interno del centro. Laura rappresenta i valori che cercavo quando ho scelto la Comunità Papà Giovanni XXIII per svolgere il Servizio Civile: solidarietà, condivisione diretta e inclusione. Non solo perché ha un bambino in affido, ma anche perché il centro è proprio una grande famiglia e nella sua casa tutti siamo benvenuti.

Inoltre, sono stata anche un’ospite della Casa Famiglia di Matteo ed Elisabetta, che insieme ai loro figli naturali e ad altri due figli che attualmente vivono nella casa, mi hanno aperto la loro porta fin da subito: questa esperienza mi ha fatto capire cos’è una Casa Famiglia in quanto l’ho vissuta in prima persona. I momenti più belli della giornata con loro erano le sere dove abbiamo potuto chiacchierare di tutto e di più e mi hanno arricchito le serate raccontandomi le loro storie con gli altri ospiti. È stato veramente un piacere far parte di questa famiglia e sarebbe un vero piacere incontrarci anche nel futuro.

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