L’ultima “Bella Ciao” tutti assieme la si è cantata sul lastricato romano con vista Cupolone. I lamenti del vicinato non sono tardati ad arrivare, nonostante il sostegno con gaudio di due signore sulla settantina, che peraltro hanno esordito in nostra difesa con una frase del tipo “Questi so’ bravi ragazzi, cantano bella ciao, mica come quei fascisti”, indicando il palazzo di fronte.
Questa non vuole essere una riflessione sull’ isolamento di questi mesi, sul rientro in Italia, sul senso della vita, e neanche tutte e tre le cose insieme. Lungi da me voler trarre generaliste e onnicomprensive conclusioni sul progetto, i Corpi Civili di Pace, ancora in divenire, che mi ha dato tanto. Dai, un po’ di serietà. Mi riesce difficile. Non mi è mai riuscito il prendermi troppo sul serio. A Wadi Fukin, in Palestina, l’arte di prendere le cose con il sorriso e non farsi prendere dalla tristezza né dalla rabbia è il fil rouge dell’esistenza. O della Resistenza, palestinese. Che parolona. Per non utilizzare la sorella mainstream resilienza. Per carità!
Là dove c’era l’erba ora c’è una Città. Anzi due. Una di qua e una di là. E Wadi Fukin in mezzo. Uno potrebbe pensare che questa sia stata una scelta mossa da un’idea di fratellanza pacifica e di cementificazione concordata, attraverso un moderno e condiviso piano urbanistico. Sempre lo stesso potrebbe pensare che gli abitanti del villaggio, con gentilezza estrema, abbiano donato centinaia di ettari di terreno ed ulivi ai loro amici israeliani. Poi, c’è stata la chiusura dei confini tra queste “Città”, con militari, bombe, armi, morte. Cose un po’ poco piacevoli. Forse è stato un piano fatto per divertire i bambini del villaggio, per farli giocare alla guerra. Ma se percepiscono che l’autorità, l’unica che esiste, è quella armata, è una vera sfida fargli fare i giochi cooperativi, i sassi colorati e le mani verniciate sui muretti della scuola. Per prima cosa disegnano una bella bandiera palestinese. Così imparate, voi “bambini di là”, che qui è più bello, perché c’è l’acqua di sorgente del babbo, del nonno, del bisnonno e via via fino ai Cananei.
Un altro aspetto tragicomico di questa “Valle Verde” è che l’economia, in precedenza, era basata sull’agricoltura. Tuttavia le “Città” limitrofe offrono ora lavoro irregolare senza tutele al triplo dello stipendio medio palestinese. I simpatici congiunti e affini, piuttosto carinamente ad ogni elezione del governo israeliano (cioè quasi ogni mese), decidono di espropriare qualche pezzo di terreno ai wadifukinesi, e per fare divertire i bambini del villaggio di Wadi Fukin, molto gentilmente sversano le loro acque bianche e nere nelle vasche di irrigazione e nelle fonti d’acqua potabile. Si sa, ai bimbi piace fare il bagno con le bolle. Poco importa se è tossico. Missmuskila (nessun problema).
Uno potrebbe pensare che sarebbe facile farsi prendere dallo sconforto, e far degenerare il tutto nella violenza, “io ti sparo – tu mi spari, però intanto ti esproprio mezzo villaggio cosi siamo pari” (ah no, non siamo pari). Tuttavia è esemplare la scelta nonviolenta degli abitanti. E per chi si trova lì, per capire quella scelta, è imprescindibile cercare di mantenersi in ascolto empatico con le persone del villaggio, e basta. Non fare nient’altro che esserci (e qualche sudata in serra o nei campi). É stata utile la presenza di qualcuno, tipo noi? Forse sì. É stata questa l’Esperienza. Esser lì, per poi raccontare un po’ quella che è vita, ed è dura. Ma funziona. C’è la volontà diffusa di seminare fiducia per il futuro nelle nuove generazioni. Come ripeteva il buon Hassan: “We ate from the trees that our grandfathers have planted, we should plant trees so our kids, and the sons of our kids, will be able to eat in the future” (abbiamo mangiato dagli alberi che i nostri nonni hanno piantato, dovremmo piantare alberi cosicché i nostri figli e i figli dei nostri figli possano mangiare in futuro) Cit.
Poi potrei raccontare anche un sacco di altre cose, ad esempio il deserto (no, non di sabbia), il Mar Morto dove galleggi con la prima pagina di “Beit Jala 24” in bella vista, l’essermi imbucato ad una corsa per settlers con una maglia simile alla loro e alla fine aver portato a casa una medaglia, la PN, perché se non sai rendicontare, puoi essere bravo finché ti pare, ma nella cooperazione sarai sempre uno un po’ troppo etereo, l’affiatamento con le persone. Sì. Uno “shukran iktir” (grazie mille) a voce altissima a tutti gli esseri umani incontrati (va bene, pure gli animali, ma non in casa). Ringrazio esplicitamente Alex al quale ho plagiato lo stile poetico, ma tanto si chiamano un po’ tutti Alex.
Tutto questo flusso di coscienza notturno durante il passaggio tra Fase 1 e Fase 2 italiana per dire ciò che segue: è impossibile non schierarsi in Medio Oriente. La terzietà nel conflitto, specie in Palestina, per me, Corpo Civile di Pace, e forse per chiunque vi metta piede, è solo fantasia. Forse lo è anche quanto scritto sopra. Per vivere e lavorare nell’ambito della cooperazione internazionale in Palestina, devi passare fisicamente per Israele, avere un visto israeliano, registrare la tua ONG in Israele, spesso usare una macchina con targa israeliana, avere una carta di credito israeliana, utilizzare un linguaggio ponderato con le Autorità, usare termini giusti nelle riunioni con le istituzioni perché se no poi i progetti non si finanziano.. Forse però ogni tanto bisognerebbe dire le cose come stanno, come le signore del bar di San Pietro, perché un conto è esser politicamente corretti, ma la terzietà nel conflitto è utopia quando credi che qualcuno abbia torto marcio.
Scusate. Sapevo che avrei divagato, mi spiace non aver detto un sacco di altre cose. Chissà se i bambini di Q. sono cresciuti, chissà come sarà quest’anno l’estate senza volontari al villaggio..
“Che c’è un po’ di caffè?”, magari mi sveglio e domani sera da Asparago. Ma’ssalama (arrivederci).
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