Caschi Bianchi Grecia

La mia esperienza di servizio civile in Grecia

“Mettersi a servizio significa porsi con umiltà vicino a chi soffre, per conoscere, comprendere e portare anche agli altri questa consapevolezza”. Mi chiamo Francesca, ho 27 anni e dopo una laurea in filosofia e una supplenza a scuola, convinta che la mia strada fosse quella dell’insegnamento, ho deciso di fare un’esperienza che mi sta cambiando la vita.

Scritto da Francesca Benenati, Casco Bianco Caritas Italiana ad Atene

Nel maggio dell’anno scorso, in seguito a un corso sull’innovazione sociale di Caritas in cui visitammo la sede di Atene, decisi di fare domanda per il bando di servizio civile nazionale all’estero per il progetto Caschi Bianchi in Grecia di Caritas Italiana. In questo modo ho avuto l’occasione di realizzare il mio desiderio di vivere “da dentro” la storia che sta caratterizzando questi tempi.

Ad Atene vengono portati avanti molti progetti e la rete di partner attorno a Caritas è complessa. E così sono stata coinvolta nelle attività più diverse, dal supporto all’advocacy di Caritas Hellas e alla redazione di dossier e ricerche, al seguire Caritas Atene nel suo sforzo di creare dei centri d’ascolto per il sostengo ai cittadini greci in difficoltà; mi sono tuffata a capofitto nel mondo di Neos Kosmos Social House, una casa che non solo accoglie persone in difficoltà, sia greci che migranti, ma concretizza, nella semplicità della quotidianità, un modello di vita comunitaria e di integrazione. A ciò si aggiunge il volontariato nella mensa di Caritas Atene, che ogni giorno offre 500 pasti alle famiglie in difficoltà; la Comunità Papa Giovanni XXIII, che si spende per i senzatetto, portando loro cibo e conforto in strada e offrendo due volte alla settimana ad alcuni di loro un pasto caldo, una doccia e un letto; e poi l’esperienza meravigliosa e straziante al tempo stesso dei viaggi a Lesbos e Chios, le isole contraddittorie dei paesaggi mozzafiato, le acque cristalline, i campi profughi e il filo spinato; i luoghi dove abbiamo incontrato dolore e speranza, fotografato e documentato una realtà difficile da accettare e impossibile da denunciare di fronte al muro di indifferenza e intolleranza che sta crescendo nell’ultimo periodo.

Potrei parlare per ore delle condizioni in cui la crisi economica ha lasciato la Grecia; delle infinite code alle mense, i senzatetto ad ogni angolo di Atene, le piazze di spaccio o i minori che si prostituiscono in centro per un pezzo di pane; delle brutali condizioni (un trattamento che nemmeno agli animali è riservato) in cui i vivono i 13.000 richiedenti asilo bloccati nei campi profughi delle isole, aspettando per mesi che la richiesta di asilo venga processata; del governo greco, troppo corrotto e troppo incompetente per gestire non solo il fenomeno delle migrazioni, ma anche per implementare degli interventi strutturali per la crescita del paese; di come l’Europa abbia lasciato affogare la Grecia nella crisi economica e migratoria, chiudendone i confini nel 2016 e bloccando tutti i migranti lì; di come abbia inoltre stipulato accordi vergognosi con la Turchia per bloccarci i migranti, esposti così a ogni tipo di pericolo e di violenze, anche da parte della polizia. Potrei ricordare gli infiniti tentativi dei ragazzi siriani ospitati nella Chiesa Armena cattolica di padre Joseph di prendere un volo per il Nord Europa, per raggiungere la famiglia o semplicemente per costruirsi un futuro, come fanno tutti i giovani, e come faccio anche io; dei loro tagli di capelli per sembrare più occidentali, delle loro lezioni di italiano, spagnolo e inglese per sfuggire alle domande della polizia aeroportuale, del loro affannarsi a trovare il passaporto falso più veritiero possibile. Potrei riportare le infinite storie di viaggi e di guerre che mi sono state raccontate, una più terribile dell’altra, da lasciarti senza fiato.

Ma di tutto questo, ci tengo invece a raccontare di come io abbia incontrato delle persone meravigliose. I miei coetanei siriani del villaggio di Al Qamishli, che mi hanno insegnato le loro danze tradizionali; il senso della condivisione e dell’ospitalità imparato a tavola con gli arabi; le famiglie siriane con i loro bimbi dagli occhi immensi; l’emozione insieme ai genitori di vedere i loro neonati crescere, muovere i primi passi e pronunciare le prime parole; ascoltare i sogni delle ragazze adolescenti palestinesi, che non sanno decidere se il desiderio più importante per loro è diventare da grandi delle artiste o la pace in Palestina; ricevere messaggi sul telefono da una bimba congolese, che a tre anni mi dice “ti voglio bene” in quattro lingue e mi fa sciogliere il cuore; avere il cuore spezzato quando qualcuno riparte, alla volta del Nord Europa. Ogni volta è un duro colpo: non è facile dire addio a degli amici.

Questa è la Grecia per me: un mix di sentimenti contrastanti, molto forti e molto intensi. La gioia della scoperta di nuovi amici, la curiosità di conoscere altre culture, una cura – quasi materna – per i bambini a cui sono più affezionata, il dolore di ogni separazione, il senso di impotenza per le sofferenze altrui, la speranza per il futuro, il forte senso di indignazione e di frustrazione per il fatto che io, italiana, posso muovermi liberamente per il mondo e costruire il mio futuro, mentre i miei coetanei, per la semplice sfortuna di essere nati nel posto sbagliato, non possono ricevere un visto sul passaporto e avere le mie stesse opportunità.

Consiglio a tutti i giovani di fare esperienze simili. Il volontariato non è né una perdita di tempo, né un modo per salvare il mondo: mettersi a servizio significa invece porsi con umiltà vicino a chi soffre, per conoscere, comprendere e portare anche agli altri questa consapevolezza. Se vogliamo una società migliore, bisogna sporcarsi le mani in prima persona e farsi carico dei problemi degli altri, senza distinzioni di alcuna sorta. E, ultimo ma non meno importante, imparare, quando non possiamo fare nulla per cambiare le cose, la saggezza di tacere e rispettare le sofferenze degli altri.

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