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Caschi Bianchi Haiti

Resa ed impotenza, ma anche forza, ad Haiti dopo l’uragano

Coloro che vivono nelle zone meno isolate sono riusciti a trovare la forza per reagire e per ritornare in strada a vendere i pochi prodotti rimasti. Coloro invece che abitano in posti dispersi e che dopo un mese non erano ancora stati raggiunti dagli aiuti, sembravano essersi arresi e rassegnati alle loro gravi condizioni“. Le impressioni di Marta e Cecilia dopo un campo in aiuto alle zone di Haiti più colpite dall’Uragano Matthew ad ottobre 2016.

Scritto da Cecilia Bellei e Marta Fontana, Caschi Bianchi Apg23 ad Haiti

Dopo appena due settimane dal nostro arrivo ad Haiti c’è stato proposto di partecipare ad un Campo organizzato da una Congregazione brasiliana – Sorelle del cuore immacolato di Maria – nella zona di Marché Léon, Jérémie. L’attività è nata dall’idea di tre suore che, dopo aver vissuto direttamente l’uragano Matthew, che ha colpito anche Haiti lo scorso ottobre, hanno deciso di creare una rete di collaborazione. Abbiamo scelto di unirci a loro perché ci sembrava un’ottima opportunità per arricchire la nostra esperienza, potendo contribuire ad sostenere chi necessitava di aiuto immediato.

Nel concreto, abbiamo preparato i kit dei viveri e suddiviso i farmaci da distribuire durante le uscite con la “clinica mobile”; ci siamo occupate dell’intrattenimento dei bambini e della misurazione di febbre e pressione delle persone che si presentavano.
A Cafou Anri e Fonbay, le zone in cui sono state allestite le cliniche, abbiamo potuto vedere con i nostri occhi la drammaticità delle conseguenze di Matthew che ha devastato una situazione già critica.

I tetti e gli alberi divelti e le strade trasformate in fiumi creavano un paesaggio a dir poco apocalittico, tutto ciò ha avuto un impatto decisamente forte su di noi. Lo scenario rifletteva, purtroppo, lo stato d’animo della maggior parte delle persone che incontravamo.
Abbiamo riscontrato due modi diversi della popolazione di affrontare il post-catastrofe. Coloro che vivono nelle zone meno isolate sono riusciti a trovare la forza per reagire e per ritornare in strada a vendere i pochi prodotti rimasti. Coloro invece che abitano in posti dispersi e che dopo un mese non erano ancora stati raggiunti dagli aiuti, sembravano essersi arresi e rassegnati alle loro gravi condizioni.
Lungo il tragitto per raggiungere i luoghi di intervento, ci hanno bloccato davanti ad una barriera di tronchi: questo era un segno di protesta. Chi, vedendo transitare continuamente mezzi carichi di aiuti, faceva di tutto pur di attirare l’attenzione, nella speranza che qualcuno si fermasse per dare qualcosa anche a loro. Molti sono gli aspetti che ci hanno colpite, in particolare il modo in cui un evento del genere viene affrontato in un contesto come quello haitiano rispetto a come avverrebbe in un Paese con maggiori capacità organizzative. Ad esempio, l’incapacità di raggiungere tempestivamente le zone più isolate ha comportato un aumento delle vittime, a causa dell’impossibilità di reperire beni di prima necessità come l’acqua potabile e il cibo. La sensazione predominante che ci ha accompagnate è stata quella dell’impotenza. Renderci utili per pochi giorni non ha migliorato la situazione, le cose da fare per ristabilire una condizione di stabilità sono ancora molte. La nostra speranza è quella di aver dato loro una spinta per scrollarsi di dosso questo stato d’animo di rassegnazione.

L’uragano Matthew ad Haiti
L’uragano Matthew ha riversato tutta la sua forza e la sua rabbia nella zona della Grand’Anse, a sud di Haiti, e nel nord del paese, il 3 e il 4 ottobre 2016. I dati ufficiali contano 900 morti, però questi numeri sono in continuo aumento a causa della scarsa qualità delle condizioni sanitarie e dell’impossibilità di reperire beni primari quali l’acqua potabile e il cibo.
Chi ha pagato il prezzo più caro sono stati bambini e anziani che hanno perso la vita nei giorni successivi all’uragano, indifesi e deboli non sono riusciti a resistere alla fame e alla mancanza di un riparo. Inoltre c’è da dire che il numero delle vittime non si potrà mai definire con certezza: interi villaggi dispersi sulle montagne sono stati spazzati via, la maggior parte delle persone che ci vivono non hanno documenti perchè non registrati all’anagrafe e in quanto passano la loro intera vita al villaggio.
La situazione ad oggi è instabile: continuano ad abbattersi acquazzoni che aggravano le condizioni già critiche, sono stati rilevati piccoli focolai di colera che però vengono monitorati. Nonostante diverse organizzazioni umanitarie lavorino per cercare di far fronte ai bisogni primari della popolazione, molte zone non sono ancora state raggiunte. La distribuzione di viveri e medicinali è complessa a causa di due fattori: i continui assalti alle carovane che portano gli aiuti e la difficoltà nel raggiungere i villaggi perché le strade di accesso sono impraticabili. Questo popolo necessita di un progetto ben più ampio basato sul ripristino delle coltivazioni, per dare loro la possibilità di tornare ad avere ciò di cui vivevano prima: questa era la zona a più elevata produttività di frutta.

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