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Caschi Bianchi Cile

Le mille sfumature del “Comedor”

Siamo sicuri che tutta questa gente abbia davvero bisogno?”. E’ la domanda che si pone Emilio, che dopo circa 10 mesi a Santiago del Cile, ci racconta il luogo dove svolge parte del suo Servizio Civile con Apg23: il Comedor Nonno Oreste – la mensa per vagabondi di Peñalolén.

Scritto da Emilio Demagistris, Casco Bianco con Apg23 a Santiago del Cile

Variegato. Questo è il primo aggettivo che mi viene in mente se penso al “Comedor Nonno Oreste”, la mensa per vagabondi nella quale sto prestando servizio qui a Peñalolén, quartiere popolare dell’immensa Santiago del Cile. Questa incredibile varietà si esprime in tante forme e colori: varietà di profumi, di musica alla radio (perennemente accesa), di volontari che vanno e vengono a dare una mano, di verdure da pelare, di pietanze da preparare… Il tutto rende questo posto unico ed estremamente vivace.

La struttura stessa è accogliente e famigliare: le pareti sono di un bel verde acceso, ci sono le tendine bianche alle finestre, vasi di fiori sulle mensole, gli ambienti sono piccoli e raccolti. E quando fuori splende il sole, anche dentro la luce balena e si riflette. Insomma, potrebbe sembrare il salotto di una casa, più che una mensa per i poveri. Del resto è proprio questo lo spirito che si vuole dare: il Comedor non è un ristorante che assicura un piatto caldo e gratuito a chi ne ha bisogno; è luogo di fraternità e condivisione, è la casa di tutti, anche solo per qualche ora al giorno. Ancora ricordo le parole di Placido e Anna, i responsabili della struttura, quando stavo iniziando il servizio e mi presentarono il programma: “Noi vogliamo che la gente della strada che viene a mangiare qui si comporti bene, non dica parolacce, si rivolga a tutti in modo educato. Non perché questa sia casa nostra, ma perché è la casa di tutti, la loro casa!

E qui arriviamo al nocciolo della questione: sono loro, i commensali del Comedor, la sostanza vera di questa varietà di cui parlavo prima. C’è chi viene a mangiare tutti i giorni da quindici anni a questa parte, chi si vede di tanto in tanto, chi è solo di passaggio. Ci sono anziani, adulti e bambini; ci sono gli spazzini che lavorano nella zona, con la casacca fluorescente che li contraddistingue, il cui salario è talmente basso che non riescono a sostentarsi. C’è chi ha una casa, chi vive in mezzo alla strada, chi sta attraversando un momento difficile e chi invece per scelta vive di espedienti. Ci sono vecchi e giovani alcolisti; c’è chi arriva già alticcio – o ancora alticcio? – alle 10 del mattino.

Al Comedor si trova davvero di tutto. E non nego che in un primo momento la cosa mi lasciava un po’ perplesso. Certo, fin da subito è chiaro il valore di questa struttura, che offre aiuto e sostentamento a chi ne ha bisogno. Ma siamo sicuri che tutta questa gente abbia davvero bisogno? Fino a che punto è giusto offrire un piatto caldo a chi, per scelta consapevole, decide di vivere senza regole in mezzo a una strada e spendere tutto quello che ha in birra e sigarette? O a chi vive di piccoli furti? A chi, come succede di tanto in tanto, si intasca di nascosto cucchiai e forchette del Comedor stesso per rivenderli al mercato?

Con il tempo però ho iniziato a capire che è proprio qua che risiede la forza del Comedor: la generosità assoluta che va oltre alle apparenze e alla diffidenza; la sospensione di giudizio, perché prima di essere un ubriacone, un delinquente o un poveretto, sei una persona affamata e il Comedor è qui per aiutarti. E non si tratta di buonismo cieco e vano, proprio perché accanto alla componente prettamente assistenziale, viene anche l’aspetto di relazione e, in un certo senso, educativo. Al Comedor, infatti, tutti sono accolti con un sorriso, indipendentemente da quale siano le proprie scelte di vita. Però, per una questione di rispetto agli altri e a se’ stessi, tutti sono invitati a presentarsi in uno stato decente, e vengono ripresi se mancano di rispetto o se, per esempio, arrivano un po’ troppo brilli. E non è così facile trovare la misura e i metodi per mantenere l’ordine e far passare questi messaggi, e in questo va tutta la mia ammirazione per chi gestisce la mensa.

I frutti di questo lavoro lungo e delicato, per quanto rari e inaspettati, si fanno però vedere: alcuni ragazzi decidono di intraprendere un percorso terapeutico per cercare di liberarsi dalle dipendenze; bambini finiti per strada vengono messi in contatto con i servizi sociali perché qualcuno possa prendersi cura di loro; uomini e donne in difficoltà trovano per lo meno qualcuno con cui parlare e confrontarsi.

E’ così che il Comedor manifesta le sue mille sfumature: riunendo intorno a un tavolo persone dai trascorsi e dai vissuti più svariati e, sia anche per poche ore al giorno, trovando il modo di celare dentro a un piatto di minestra il sapore della fraternità e della condivisione vera.

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