Caschi Bianchi Kosovo

A Cagliari per raccontare il Kossovo nove anni dopo. Intervista a Riccardo Iacona.

Il giornalista Rai presenta al 60° Prix Italia l’anteprima di un documentario che avvicina Kossovo e Afghanistan, protagonisti di una guerra infinita che porta sulle rotte del narcotraffico e del terrorismo internazionale. I soldati della Nato sono anche nostri, e il servizio pubblico di informazione non ha il compito di aspettare che lo stato maggiore dell’esercito ci dica che i nostri soldati sono morti, ma di far conoscere in quali condizioni lavorano, e far sapere se la soluzione militare sia davvero l’unica.

Scritto da Sara Cossu, ex casco bianco a Prizren

Dopo un anno trascorso in Kossovo come casco bianco di Caritas Italiana, incontro Riccardo Iacona in Sardegna.

Noto conduttore e giornalista RAI, Iacona ha realizzato una serie di trasmissioni, inchieste e reportage tra i quali W L’Italia e Pane e Politica. In occasione del 60° Prix Italia, concorso internazionale per la radio, la televisione e il web, Icona presenta nel capoluogo sardo, l’anteprima del documentario in due puntate intitolato La guerra infinita, in onda in prima serata su Rai Tre, il 19 e 26 settembre prossimi.
Del Kossovo Iacona racconta la pulizia etnica perpetrata contro i kossovari di etnia serba, la distruzione di chiese e cimiteri ortodossi, la corruzione diffusa, leliminazione di oppositori politici e giornalisti scomodi e l’impunità di mandanti ed esecutori materiali, e, passando per Macedonia e Turchia fino ad arrivare in Afghanistan, ricostruisce minuziosamente le rotte del narcotraffico e del terrorismo internazionale.

Un anno di lavoro per realizzare un documentario in due puntate. Era la prima volta in Kossovo e in Afghanistan?
No, era la terza volta che andavo in Afghanistan. Ero stato a Belgrado durante i bombardamenti Nato e prima ancora ero stato in Kossovo quando c’era la crisi, quando si parlava di pulizia etnica nei confronti dei kossovari di etnia albanese, quando gli albanesi venivano cacciati dai villaggi. Quando c’è stata la guerra l’ho seguita da Belgrado, poi dalla Macedonia, poi dall’Albania a Kukes. È una vicenda che ho sempre seguito mentre si svolgeva. Ma mancavo dai tempi dei bombardamenti del 1999. Quindi precisamente da nove anni.
È’ stato distruttivo per me tornarci. Sono rimasto anche molto sorpreso. Più o meno avevo seguito sui giornali quello che è successo dopo, mi ero preparato bene… ma un conto è prepararsi e un conto è vedere. Un conto è vedere per esempio che a Prizren, la seconda città del Kossovo, gli albanesi, per non far tornare i 4.000 serbi che ci abitavano e che di certo non erano poliziotti tagliagole ma insegnanti, professori, medici, insomma, funzionari dello stato, hanno addirittura bruciato un quartiere intero! Hanno bruciato il quartiere più bello. Quello più antico. È come se a Roma o a Cagliari si bruciasse la parte più bella della città, con il semplice scopo di dire: “Voi qui non ci tornate più!”. Così come hanno bruciato gli ospedali dove i serbi lavoravano.
Sono rimasto molto impressionato dalla ferocia, dall’organizzazione e dalla pianificazione della pulizia etnica che i kossovari di etnia albanese sono riusciti a fare, nonostante, o meglio direi, senza il controllo dei soldati della NATO e delle forze di polizia delle Nazioni Unite.

Perché il suo documentario ha scelto di trattare la pulizia etnica di cui sono vittime i kossovari di etnia serba?
La pulizia etnica è una cosa molto precisa. È molto difficile per esempio parlare tecnicamente di pulizia etnica nei confronti dei kossovari di etnia albanese se vai a vedere bene. In un solo episodio, sono stati cacciati dalle loro case. Se in 800.000 sono stati costretti a scappare, allora è pulizia etnica. Se gli hanno bruciato le case, quella è la pulizia etnica.
Tu prendi un villaggio intero. Qualcuno lo ammazzi e il resto lo cacci via. Le case le bruci. I terreni li bruci. Le tombe le rompi a colpi di pala e di piccone. Gli alberi da frutta li sradichi. Le chiese le bruci. E fai terra bruciata di tutto quello che è presenza serba nel Kossovo, anche la presenza più antica. Gli albanesi hanno bruciato le chiese medievali del 1100 e 1200. Questi sono atti di violenza a questo punto direi contro l’umanità. Questa è la pulizia etnica. Dei 250.000 serbi che sono stati cacciati un migliaio sono morti, gli altri sono ancora vivi, in attesa di ritornare.

Perché un documentario in due puntate su Kossovo e Afghanistan?
Perché il Kossovo e l’Afghanistan sono legati tra loro. Il pubblico italiano non sa niente di quello che è successo. E c’è un obbligo di informazione che la televisione ha violato. Lo hanno fatto i telegiornali, che per primi, ne hanno parlato pochissimo: solo gli episodi del marzo 2004 e adesso quelli dell’indipendenza, quando per due o tre giorni abbiamo saputo che cosa stava avvenendo.
Ma è molto poco! C’è un silenzio. Ma è un silenzio colpevole perché noi siamo lì, siamo complici di quello che è successo lì, perché i soldati della Nato sono anche i nostri. La Nato siamo noi. È la parte militare di un mondo occidentale che si presenta all’estero e impone con la forza e la guerra determinate condizioni di vita, e potrebbe trattarsi di condizioni di vita che ci assomigliano. È importante dire all’opinione pubblica italiana che non ci assomigliano manco per niente!
Lì non abbiamo esportato né democrazia, né pace, né sicurezza, né legalità, né giustizia.
La dimostrazione è che nonostante avessimo 40.000 soldati, le squadre armate di kossovari di etnia albanese sono state libere di compiere una pulizia etnica.

Allora qual è il vero ruolo della Nato?
Intanto, dal punto di vista geopolitico la Nato ha mantenuto una posizione strategica. È questo è l’importante. Gli americani hanno costruito in Kossovo una delle più grandi basi militari. Il più vicino possibile a Mosca! Il conflitto è ancora lì! Ancora oggi, per la Nato, sotto direzione politica degli Stati Uniti, è importante posizionare le caserme militari verso il vecchio nemico. Dal punto di vista militare la Nato ha svolto quest’operazione. E sono problemi della Nato.
Ma se vai lì, senza avere le fette di prosciutto negli occhi, senza andare a fare un viaggio ideologico, ma vai a verificare sul terreno quello che sta succedendo, la missione Nato è una missione che va ricalibrata. Così come va ricalibrata in Afghanistan, dove addirittura stiamo perdendo la guerra. Non lo dico io. Lo dicono i fatti. Dicono che le cose così non possono andare avanti. Se vogliono che le cose vadano avanti così, andremo verso la sconfitta militare in Afghanistan e verso un acuirsi del conflitto nei Balcani e verso la Guerra Fredda. E il titolo del documentario La guerra infinita un po’ diventerà un dato di fatto.

Quale peso hanno avuto le cosche kossovaro-albanesi negli USA nella scelta dell’intervento Nato nel marzo del 1999?
C’è stata un’accelerazione da parte degli americai, almeno così dicono gli analisti. Anch’io stando lì sul terreno, a Prishtina, avevo l’impressione che qualche margine di trattativa ci sarebbe potuta ancora essere. A un certo punto, dopo la famosa strage di Racak, si è deciso di ritirare tutti gli osservatori dell’OSCE. E poi si è arrivati all’ultimatum. E poi si è arrivati alla guerra.
Gli Stati Uniti volevano la guerra. Ma non penso che volessero far cascare le cose. Milosevic non è cascato quando c’era la guerra. È cascato dopo. E quando è cascato non è che i democratici siano stati aiutati.
Tornando alla domanda, certamente l’Uçk (1) era presente dappertutto. È nato fra le associazioni di migranti, in Germania, Svizzera, negli Stati Uniti.
Una cosa certa ormai storicamente è che è stato finanziato dai servizi segreti occidentali. Dalla CIA in primis.
Poi questi canali dai quali sono passate le armi sono gli stessi da cui oggi passa la droga. È lo stesso di Bin Laden in Afghanistan. Noi, per combattere i russi abbiamo fatto nascere i talebani e dato i soldi a Bin Laden. E adesso ci teniamo i problemi.

L’interesse era quello di strappare alla Serbia il controllo di un territorio che si sarebbe potuto trasformare in una grande piazza, un crocevia, dal quale smerciare le partite di eroina afghana in tutta l’Europa?
Non penso. È un effetto non calcolato fino in fondo. Non penso che la Nato traffichi in droga, se questa è la domanda. O che si aspettasse, o che preferisse! Ma adesso per la Nato è un grosso problema perché non riesce ad imporre giustizia e legalità. I clan sono talmente potenti che guidano la politica.

Allora per quale motivo molti esperti di crimine internazionale sostengono che le mafie abbiano ringraziato i 43 Stati che hanno sostenuto l’indipendenza?
Se lo stato diventa un narcostato vuol dire che “tu mafia”, oltre che al controllo del territorio che hai sempre esercitato -stile mafia nostra-, hai anche il controllo della politica.
Come se la mafia siciliana esprimesse direttamente il presidente della Regione! Hai ottenuto il sogno di tutte le mafie: di essere politica e criminalità allo stesso tempo!
Si pensi se la mafia comandasse la Banca d’Italia, con tutti i soldi che investe per il mondo! Si pensi se la mafia italiana potesse esprimere il governatore della Banca d’Italia. Sarebbe il massimo. No?!

Lei crede che il Kossovo sia un narcostato a immagine e somiglianza del crimine organizzato?
Penso che lo sia stato per molto tempo. E che lo può diventare. Ma in parte sì, lo è già. Si vada a vedere che cosa stanno costruendo, le case che stanno costruendo, le macchine con cui vanno in giro.
Per un occhio allenato come il nostro a seguire i fatti, il riciclaggio di danaro, nelle nostre province del Sud, nelle nostre regioni del Sud, salta subito agli occhi che c’è qualcosa che non funziona. Una ricchezza accumulata in maniera legale non è denunciata.

Sono in tanti a denunciare che la narcomafia si è insediata ai vertici politici, infiltrandosi in tutte le realtà partitiche. La droga è una forma di finanziamento ai partiti kosovari?
La droga è tutto. Siccome i margini di guadagno sono enormi, ti consente di riempire le tasche e continuare a fare un business più o meno legale. Infatti in Kossovo c’è un boom delle costruzioni. Un giro d’affari enorme. Tutti quei soldi vengono dalla droga.
E poi la ricchezza ti permette di infiltrarti nella politica, di corrompere i funzionari dello Stato, di corrompere i doganieri, di corrompere i poliziotti. Adesso mano mano ce ne andremo e lasceremo il controllo del territorio al KPS (2), i poliziotti albanesi. E quelli chiaramente sono corrompibili. Però, attenzione! Lì funziona tipo “il bastone e la carota”. Se non riesci a corrompere, ti ammazzano. Quindi non c’è solo questo. I poliziotti della valle Dukagjini, dove comanda Ramush Haradjnaj (3), sono poliziotti molto attenti a quello che fanno, per non rompere le scatole a chi sanno, per non dare fastidio ai grandi trafficanti. Perché se danno fastidio li ammazzano. A colpi di kalashnikov. Sulla strada. Come cani. E c’è un’impunità in Kossovo per gli omicidi, sia legati alla criminalità che alla politica che fa impressione. Mi ricorda un po’ le stagioni tristi di Palermo. Quando i morti si contavano tutti i giorni.

L’Unione Europea ha deciso d’inviare 2000 fra magistrati, amministratori, poliziotti… Un contingente civile che si sostituisce all’UNMIK e che accompagnerà il Kossovo durante la fase dello state building… Chi si occupa di giustizia in Kossovo parla dell’impunità da lei appena citata, che non permette di perseguire i responsabili di attività illecite.
Eulex non è ancora partita. È “partiticchia”. E perché?! Bella domanda! Come fanno a mettersi d’accordo con 150.000 serbi che non riconosco l’Unione Europea in Kossovo? Che vogliono avere come interlocutori solo le Nazioni Unite? Come fanno? La cosa grave dell’indipendenza non è l’indipendenza in sé. Quanto il fatto che l’indipendenza ha messo il tappo su una trattativa che non è mai partita.
Tu non puoi fare un Kossovo dove c’è pace o sicurezza se non ridai la terra a 250.000 che sono stati cacciati via! Tu Unione Europea lo devi poter imporre. Altrimenti con quale faccia ti presenti di fronte al mondo? Dici: “Io ho controllato il Kossovo, ma improvvisamente è diventato un paese etnicamente puro! Qualcosa è andato male!” Non si può fare così. L’Unione Europea non può farlo. L’Unione Europea è portatrice di democrazia., dei valori più alti. Solo così può conquistare il mondo.
Rispetto a Eulex non so esprimere un giudizio. Bisognerà vedere. Bisognerà seguire. Bisogna stare con gli occhi attenti. Spero che lo facciano. Le agenzie hanno gli strumenti per farlo, i telegiornali, i giornali.

Ha citato Palermo. È troppo azzardato confrontare l’Italia al Kossovo?
Intanto i confronti non li faccio io. Li fa la DIA (4), che paragona la mafia kossovaro-albanese non tanto alla mafia siciliana, quanto piuttosto all’’ndrangheta. Sia come struttura familiare e familistica, sia come modalità di controllo del territorio, sia come ferocia, come capacità di penetrazione a livello internazionale. Grazie alle comunità di emigrati i mafiosi kossovaro-albanesi sono capaci di stare su più mercati contemporaneamente: dal Nord Europa, Finlandia e Svezia, sino ad arrivare negli Stati Uniti, e persino al Sud America.
Adesso hanno scoperto una rotta di cocaina che fa il giro inverso. Parte dal Sud America, arriva in Turchia e ripassa per i Balcani, perché nei Balcani ci sono i magazzini, i depositi. I depositi sono molto importanti. Avere posti dove tu la droga la puoi tenere quando in Afghanistan sei in sovraproduzione, vuol dire che tu hai le basi di stoccaggio che ti permettono di giocare al rialzo. Altrimenti con la sovraproduzione il prezzo crollerebbe. E non stiamo mica parlando di persone che mandavi a fare la punizione o a vendere al dettaglio! No di certo. Si tratta ormai di una mafia potentissima.

Dal punto di vista tecnico i paragoni non possiamo farli. Per fare un paragone vero con l’Italia, bisognerebbe aspettare la secessione della Padania dal resto del Paese. Diciamo che l’Italia è un Paese, uno Stato, che, anche quando ha avuto la mafia al proprio interno, non ha mai espresso un Presidente del Consiglio direttamente organico, che fa parte delle famiglie che poi trafficano. Grazie a Dio questo non c’è stato, anche se l’inquinamento è stato molto forte e continua ad essere forte e ad essere motivo di preoccupazione. Ma è anche fonte di battaglia. Lì, in Kossovo, questa battaglia non c’è proprio.
La NATO e le Nazioni Unite hanno sequestrato in un anno 36 chili di eroina. In un Paese dove ne passano centinaia di tonnellate all’anno!

Gli anni della missione ONU hanno lasciato in eredità all’Eulex la maturazione di quelle consapevolezze di politiche contro il crimine organizzato, negli operatori politici e giuridici kossovari?
Qual è lo Stato? Lo Stato in Kossovo non esiste. Lo Stato sono le Nazioni Unite. Il giorno che se ne vanno le Nazioni Unite chi rimane lì?
I poliziotti coraggiosi che stanno cercando di fare luce sui delitti politici, soprattutto su quelli degli uomini di Rugova vengono ammazzati. C’è stata una strage di uomini, giornalisti, politici scomodi. Sono stati ammazzati. E vengono uccisi anche i poliziotti. Altro che legalità! Quando andranno via le Nazioni Unite, non penso che i kossovari si metteranno ad arrestare mezzo Kossovo.
Arriverà Eulex e si vedrà. Anche in Afghanistan stiamo spendendo un sacco di soldi per il sistema di giustizia afghano e ancora i risultati sono lontani da vedere. Non penso che tre anni di Eulex potranno far nascere una classe dirigente in Kossovo. Specialmente se abbiamo permesso che la selezione della classe dirigente avvenisse in un clima di illegalità. Che ne sappiamo noi che le persone che oggi sono al potere, sono al potere perché responsabili o mandanti di omicidi politici? Non lo possiamo di certo sapere.

Quali sono stati i suoi interlocutori locali? Chi ha scelto d’incontrare e perché?
Noi non scegliamo interlocutori. Scegliamo storie da raccontare.
Abbiamo fatto un grosso lavoro di casting sulle storie. Tanto di ricostruzione storica prima di andare lì, e per tale ragione il lavoro è durato un anno. Un lavoro di scrittura… Poi sono andato a cercare di riscoprire. Qualcosa di quello che volevamo l’abbiamo trovato. Qualcosa non l’abbiamo trovato. E qualcosa abbiamo trovato che non sapevamo nemmeno che esistesse!
Per esempio, nel documentario c’è una parte dedicata alla storia di Bardhyl Ajeti, un giornalista indipendente che è stato ucciso solo tre anni fa. Era stato minacciato. Aveva chiesto protezione alla Nato e la Nato se n’era fregata. Alla fine l’hanno ammazzato con un colpo di pistola in faccia. È una storia che io sapevo che esistesse, ma non pensavo sarei mai riuscito a raccontarla. Invece ho trovato i parenti, che sono stati straordinari. Ho ricostruito quello che lui ha scritto negli ultimi tre mesi. Ho parlato con i redattori dei giornali.
Ci sono delle cose che sul campo da un filone piccolo diventano un filone grande. Questa è la soddisfazione di questo mestiere.

Quale è lo scopo del suo lavoro, il messaggio per il pubblico, e di un lavoro come il suo da mandare in onda in prima serata?
Vogliamo che queste cose abbiano la stessa dignità del varietà. Anzi, dovrebbero averne ancora di più visto che in Kossovo e in Afghanistan abbiamo i nostri soldati.
Quindi un giorno, se dovesse succedere qualcosa, almeno sapremmo in che contesto è successo. Il contesto storico è importante. Il contesto dei fatti è importante. Se ammazzano i nostri soldati in Afghanistan, non conoscere il contesto in cui è successo, quando, come, perché, che cosa è successo in quelle settimane in quella zona dove magari i nostri soldati pattugliano giorno e notte e dove è possibile che arrivi un kamikaze e si faccia saltare in aria, significa non conoscere la realtà.
Non conoscere la realtà significa non conoscere perché i nostri soldati combattono.
Se un giorno – il Signore ci tenga lontano – proprio perché andranno in una zona dove si combatte tutti i giorni, i nostri soldati italiani dovessero essere amazzati, è importante sapere. Perché noi potremmo anche accettare il combattimento in Afghanistan, ma vogliamo la verità sulle condizioni storiche. Vogliamo sapere chi sono i nostri nemici. Vogliamo sapere in che condizioni stiamo lavorando. Vogliamo sapere se è peggiorata la situazione. Vogliamo sapere se forse abbiamo sbagliato qualcosa. Vogliamo sapere se forse la soluzione militare non è l’unica. Vogliamo sapere se forse bisognerà aprire il tavolo delle trattative, almeno a livello regionale.
Forse bisognerà convincere l’Iran, la Russia e il Pakistan a metterci del proprio in questa pace in Afghanistan. E per questo forse non bisognerebbe minacciare l’Iran tutti i giorni di bombardarlo.
La questione si fa molto più complessa se la si vede un po’ dall’alto. Certamente se restiamo attaccati alle notizie che ci dà lo Stato Maggiore dell’Esercito sapremo ben poco. Non è questo il compito del servizio pubblico. Di aspettare che sia lo Stato Maggiore dell’Esercito che dica che cosa è successo a Pagman, quando è morto Paladini (5).
Il servizio pubblico deve andare lì a vedere perché è morto Paladini.

Note:

Si veda:
http://www.prixitalia.rai.it/2008/en/Default.aspx

1) UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës) – Organizzazione militare di combattenti indipendentisti kossovaro-albanesi
2) KPS – Kosovo Police Service
3) Ex comandante dell’Uçk, accusato di crimini contro l’umanità, recentemente assolto da tutte le accuse dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia.
4) DIA – Direzione Investigativa Antimafia
5) Maresciallo italiano morto in un attentato dei talebani nel novembre 2007, a Pagman, venti chilometri da Kabul

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