• Cb Apg23, 2008

Caschi Bianchi Italia

Il Tigre dai denti da latte

Intervista ad Andrea Volon, da oltre vent’anni impegnato nell’attività missionaria della Comunità Papa Giovanni XIII.

Scritto da Elmar Loreti

Gli immancabili sandali, il forte accento francese che rivela l’origine belga e lo sguardo di chi ne ha viste davvero tante nella sua vita, così si presenta Andrea Volon, uno dei pilastri dell’attività missionaria della Comunità Papa Giovanni XIII.

Dallo Zambia ai bassifondi romani, dal Brasile alla Russia, dal Kenya all’India e ora in Palestina, “il Tigre” ha consacrato la sua vita alla condivisione diretta con gli ultimi fra gli ultimi, con umiltà e determinazione, andando sempre dove la sua presenza era richiesta.

È difficile riportare l’atmosfera che si crea in una conversazione con lui: con il suo parlare fatto di francesismi e di parole tronche, di gesti e di sguardi, Andrea ti cala in un mondo lontano ma terribilmente reale, un mondo di ingiustizia e di povertà, ma anche di fede e di speranza incrollabili.

Tu hai aperto molte missioni, l’hai aperta in Zambia, in Brasile, in India e in Kenya. Concretamente cosa vuol dire aprire una missione? Come si fa a decidere in quale zona operare?

Generalmente apriamo una missione quando c’è la richiesta da parte di un Vescovo. Per il Brasile ricevemmo la richiesta del Vescovo di Araçuai, Renzo Rinaldi, che ci chiese di venire a vedere cosa potevamo fare. In altri casi riceviamo un invito specifico: ad esempio il Vescovo di Ndola ci chiese esplicitamente di aprire una casa famiglia.

Come ricercate gli ultimi fra gli ultimi? Qual è il criterio per decidere di quale delle infinite forme di privazione ci si deve occupare?

Questo dipende dalla sensibilità di ciascuno, non ci sono schemi: se sei interessato alla condizione dei ragazzi di strada apri qualcosa per loro. Se sei interessato all’handycap vedi cosa puoi fare…
Poi le povertà sono così tante che hai l’imbarazzo della scelta.
Quando sono andato in Kenya non avevo l’idea di fare chissà che cosa; sono andato lì, dentro a quel buco e ho cominciato a fare il falegname, a lavorare con la gente della baraccopoli. Poi, io dico, da cosa nasce cosa: quello che è importante è conoscere la gente, prima bisogna fare amicizia, vivere assieme e capire i bisogni…poi dentro una baraccopoli di bisogni ce n’è finché ne vuoi…

Tu sei arrivato in Kenya con i tuoi sandali e la tua pelle bianca, come sei stato accolto?

La gente è rimasta un po’ scioccata: vedere un musungo (uomo bianco ndr) che vive da solo dentro a un buco non è certo normale per loro. Vivevo in una baracca di tre metri per due, dormivo sotto la tavola…poi la casa si è allargata in funzione del bisogno: vedi, io non parto mai con un progetto, non voglio fare progetti. Il progetto deve partire dalla gente: lì non c’è niente, non c’è acqua corrente, non c’è elettricità, non c’è niente a livello sanitario, non c’è il pronto soccorso…
La gente viene con questi bisogni e si vede cosa si può fare.
Se si parte con un progetto in testa si ha un modo di fare neo-coloniale, paternalista. Ed è un atteggiamento abbastanza comune: il colonialismo non è morto, noi abbiamo ricolonizzato tutta l’Africa.

A tale proposito, si parla di stili diversi di missione. Tu in che rapporti sei stato con gli altri missionari?

Io parto da questo principio: prima bisogna cercare di non giudicare, poi cercare di vivere onestamente, cercare di vedere quello che ci unisce e non quello che ci divide; di cose che dividono ce ne sono tante. Bisogna cercare di avere tutti un po’ di buona volontà, al di là del fatto religioso, io mi impegno con chi in quel paese chiede giustizia: non importa se è cattolico o animista o della Chiesa del Settimo giorno, non mi interessa, quello che mi interessa sono le menti delle persone, i doni che hanno da dare al di là della fede.
La gente lì non ha voce, devi partire dal fatto che la gente non ha voce. Chi se frega del poveretto? Non porta niente, dicono che porta solo problemi perché ruba, c’è corruzione…è tutta gentaglia, feccia, rifiuto della società. Lo slum è composto di questa gente! 8000 abitanti e il 97% non ha lavoro. Non hanno niente, nessuno lavora e si arrangiano come possono.
Io stavo nello slum di Soweto, subito fuori dalla parrocchia di Kawangware, dove non si stava tanto meglio, e ho visto della gente Kawa che aveva paura ad entrare nello slum. Paradossalmente io che ero bianco non ho mai avuto problemi.

Esiste la solidarietà all’interno dello slum?

Vedi, se io non ho un lavoro e tu non hai un lavoro, come faccio io a dividere con te quello che non ho? Quello che posso condividere con te è l’andare a rubare…andiamo a rubare e ci dividiamo quello che prendiamo. Questo è il genere di condivisione, non è il massimo eh? Questa è la mentalità africana: l’africano non va a rubare il denaro da solo, si ruba assieme e si mette il bottino in comune…in questo modo nessuno ha rubato.
A noi sembra strano ma a loro no, anche perché si chiedono: e i miei figli? Quattro, cinque, dieci figli devono mangiare; non ho lavoro, come faccio? Io ci ho pensato molte volte, cosa farei io al posto loro? Quanta gente muore fuori dall’ospedale, perché non ha un euro per entrarci? Perché se non hai un euro per entrare non entri! Io l’ho visto, rimani scioccato.
Scopri che la vita non vale niente, se tu hai i soldi fai quello che ti pare, ammazzi e non c’è problema: paghi la polizia e tutto si mette a posto. La polizia è ipercorrotta, tutto è corrotto: se ti serve un documento ti ci vogliono sei mesi oppure due giorni se dai una mancia. Questo logora.
È la lotta per la sopravvivenza giorno per giorno: ti svegli la mattina e il tuo primo pensiero è “cosa mangerò oggi?”. E in più c’è un clima di insicurezza continuo.

In una situazione del genere cosa può fare una casa famiglia? È una goccia nel mare.

Una casa famiglia dentro una baraccopoli non serve a niente, io ero in una casa aperta a tutti, dalle prostitute a chi doveva andare all’ospedale. Portavo la gente al pronto soccorso, aiutavo chi non aveva niente da mangiare, era un lavoro di solidarietà. E in più c’erano sempre tanti ragazzi ospitati in casa, chi veniva dalla strada, chi non aveva più una famiglia a causa dell’AIDS. Ho tirato fuori dal quel mondezzaio nove ragazze, ora fanno la boarding school (scuola superiore, ndr) a Nairobi e tornano solo per le feste.
Una delle piaghe maggiori è proprio questa: le ragazzine vengono sfruttate, rimangono incinte a tredici, quattordici anni e dopo sono costrette a continuare a prostituirsi, non c’è altro da fare.

Come puoi conciliare tutto ciò con il punto di vista cristiano sulla contraccezione e sulla sacralità della vita?

Per me la vita è sacra, la vita è un dono e io non sono padrone di quel dono, sono chiamato ad essere servo di quel dono, servo della vita. Non ha importanza che tu sia un bianco o un nero, devi difendere il più possibile la vita. Prima di tutto bisogna avere il rispetto della vita di ognuno, perché rispettare significa dare valore, dire “tu sei qualcuno”. L’importante sono le persone, non sono le cose, l’orrore è che si mettono le cose prima delle persone, è un assurdo; quello è il male!
Ogni persona è unica, per questo non potrei mai accettare l’aborto. La vita, anche quella del figlio di una prostituta, è sempre vita, è sempre un dono. La prova la vedi nella cultura africana: una ragazza che è incinta si trasforma, per la donna è il massimo rimanere incinta, è ciò che la rende donna. Il dono più grande per un’africana è il bambino; noi qui abbiamo perso questo valore, abbiamo ridotto l’essere umano a una cosa, ma l’uomo non è una cosa, è un essere unico e irripetibile.

Molti, nella Comunità, trovano nella fede la forza di stare con gli ultimi fra gli ultimi…

Questo lo posso capire, però la fede non può mai essere discriminatoria, la fede è un dono che va condiviso, una volta che ti senti padrone di quel dono il dono è morto. In un mondo globalizzato dobbiamo cercare ciò che è buono dappertutto, senza escludere, senza fare differenze. “Noi” siamo tutti, cristiani e non cristiani…Cristo è morto per tutti, non solo per i cristiani, non esclude nessuno.
Ma quanti cristiani si comportano veramente in questo modo? È per questo che non tocca a noi giudicare, noi dobbiamo amare.

Per concludere, un pensiero riguardo ai Caschi Bianchi…

Per me i Caschi Bianchi sono una cosa bellissima, sono stati un aiuto prezioso in Kenya. Alcuni di quelli che ho conosciuto sono entrati nella Comunità, altri, più della metà, non erano credenti ma ho comunque mantenuto un ottimo rapporto con tutti; una cosa, questa, bella di per sé.
I Caschi Bianchi sono un gran dono, da coltivare e da potenziare, è importante che siano seguiti ma è importante anche dar loro la possibilità di rendersi protagonisti, di esprimere il proprio pensiero, le proprie aspirazioni, dar loro uno spazio creativo. La buona volontà deve essere potenziata il più possibile, i giovani devono avere la possibilità di esprimere se stessi e le loro idee, io come responsabile devo dar loro la possibilità di farlo.
Bisogna dare la possibilità alla gente di volare, se no sono castrati in partenza.

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