• Caschi bianchi Apg23 2010

Bolivia Caschi Bianchi

Una scuola per trovare il tesoro dentro se stessi

I giovani della comunità terapeutica San Vicente lottano ogni giorno con una storia difficile da guardare in faccia. Tante storie e cammini a testimoniare che “ne vale la pena”.

Scritto da Alessia Fasolo, Casco Bianco a La Paz

“Ale, devo intervistare un ragazzo che è entrato tre giorni fa, vuoi entrare? Vedrai che se rimarrai silenziosa, seduta lì a lato, lui si aprirà e dirà un sacco di cose.”

Accetto, aggiungo una sedia nell’ufficio della psicologa e mi siedo ad ascoltare.

“J., quanti anni hai?”

“21”

“Bene, ti farò varie domande, su di te, sulla tua famiglia… cerca di rispondere il più rapido possibile. Mi servono queste informazioni per fare il tuo quadro diagnostico. I tuoi genitori come si chiamano? Sono vivi? Hai fratelli? Con chi sei cresciuto?”

“Ho quattro fratelli maggiori, ma vivono con mia nonna. Fino ai due anni sono stato con mia mamma, poi lei ha iniziato a lavorare fuori e allora io ho vissuto con mia zia e i suoi 4 figli, … mio padre, si, l’ho visto l’ultima volta un anno fa, … sì, beve parecchio, … , se n’è andato di casa quando io avevo un anno, con un’altra.”

“E con tua zia, con i cugini, …come ti trovavi?”

“Bene, che domanda!”

“Che significa “bene”? Tua zia vi trattava allo stesso modo, ti picchiava… ?”

“… [silenzio] …no, mia zia voleva bene ai suoi figli, … a loro comprava tutto, io… ero un peso. Mi picchiava si, poi mi hanno messo in un istituto, quando io avevo 10 anni, gli altri ragazzi che già vivevano lì. Ne avevano 13-16 e io ho imparato molte cose, all’inizio se ne approfittavano: il capo banda, tra i ragazzi dell’hogar [1], per divertirsi faceva picchiare uno grande con uno piccolo, o due piccoli, e lì dovevi difenderti, voleva sangue, ero debole, ma poi sono diventato forte anche io. Mia mamma la vedevo ogni tanto, veniva a trovami, tranne che per 3 anni, quando è stata in carcere …per narcotraffico. Ho iniziato a bere a 17 anni, alcool con refresco [2], poi qualche droga, ma non molto, bevo nei fine settimana, a volte per 2-3 settimane di fila …adesso sono sobrio da 5 giorni.”

Questo è grosso modo quanto si chiede a ogni ragazzo che decida di entrare nella comunità terapeutica Hogar San Vicente. Mi è capitato di conoscere ragazzi con un’intera famiglia di narcotrafficanti, o altri vittime di abusi sessuali, altri che fin da piccoli hanno dovuto lavorare vendendo per le strade obbligati a guadagnare ogni giorno una determinata somma di denaro altrimenti poi, a casa, la madrasta [3]

Questi sono i bambini del passato che ora sono uomini di 20, 30, 40 e più anni, cresciuti nel rifiuto, nella violenza,nel dover dimostrare di essere qualcuno che non sono, depressi, insicuri, che fanno i duri, violenti e boriosi quando bevono, ma in fondo pieni di paure.
Cresciuti con un padre che beve, con una madre assente o al contrario, troppo presente e protettiva.
Alcuni dei ragazzi in programma raccontano che hanno iniziato a bere alcool alle feste, intorno ai 10 anni perché il padre beveva “di norma” e qui in Bolivia per alcuni ceti sociali funziona così: è costume che ogni persona partecipi a una festa portando una cassa di birra, poi un goccettino alla Pachamama [4], al suolo, per offerta, e il resto lo si beve per dimostrare che si è uomini forti; e quindi ogni festa termina con uomini, donne, coppie, che tornano a casa barcollando, nel peggiore dei casi genitori barcollanti sorretti dai figli nel mezzo della strada.

Anni passati a bere in strada, in casa, lontano dalla famiglia, nel silenzio omertoso dei familiari; anni passati a ingoiare non solo alcool, ma anche le amarezze della vita, le proprie impotenze, i propri limiti impossibili da accettare, le proprie sconfitte, le pretese della società.

Si affoga il proprio dolore e la fatica di vivere nell’alcool e nella droga, per anni in cui si contano i pochi giorni di sobrietà, in cui le stagioni passano senza rendersene conto, si perdono i mesi, fino a quando un giorno camminando per le zone del barrio di Tembladerani [5] bussano alla porta dell’Hogar San Vicente dicendo: “Quiero internarme”[6].  Da qui una quindicina di giorni perché l’equipe valuti il singolo caso, poi si comincia la prima fase, in una località a 3 ore da La Paz, dove la persona rimarrà per 2-3 mesi maturando le proprie motivazioni per decidere di intraprendere il programma e tentando di demolire la sua “falsa immagine”, ponendosi nell’attitudine di chi ha bisogno di aiuto. Terminata questa fase, tornerà a La Paz, per iniziare la seconda fase che la porterà ad affrontare e a riconoscere le proprie paure, le proprie maschere, i propri difetti, parlandone nei colloqui individuali con il referente e nella terapia di gruppo.
Durante la settimana della terapia occupazionale che consiste in lavori di falegnameria, si alternano i gruppi: lunedì gruppo di terza fase con emozioni, il giorno dopo ne parla la seconda, mercoledì obiettivi per la terza e il giovedì chiude la seconda con lo stesso argomento.

Nella terapia di gruppo si tenta di analizzare insieme ciò che si vive quotidianamente: dall’ “hermano”[7] che esce dalla cucina lasciando le pentole sporche, alla preoccupazione dei figli che stanno crescendo con l’ex moglie. Ci si rieduca assieme, equipe tecnica e “pazienti”, come in una famiglia dove i genitori danno le indicazioni, i permessi, le punizioni, spiegano, …e i figli tra cadute e progressi imparano a essere autonomi in relazione con gli altri in modo che, una volta fuori dall’ambiente protetto della comunità, possano affrontare e trovare soluzione ai propri problemi con le proprie capacità, senza scappare nel consumo di sostanze.

Nella terapia di gruppo ogni ragazzo parla di sé, di quanto vive o ha vissuto, di come si sente e perché. La psicologa a volte spiega cos’è l’autostima, come si gestiscono rabbia, ira, paura; insegna a controllare la preoccupazione e a uscire dalle supposizioni, a non mentire a se stessi. Molte volte sono i ragazzi ad aiutarsi fra di loro, smascherando chi si nasconde e dando consigli a chi ha da poco iniziato il programma.
Strettamente uniti alle emozioni, sono poi gli obiettivi che ognuno di loro traccia e tenta di portare a termine:per alcuni può essere il riavvicinamento familiare, per altri trovare un lavoro, superare la timidezza, dare importanza alla propria vita. I colloqui individuali e i gruppi danno ai ragazzi l’opportunità di guardare con occhi diversi al passato e di raccogliere herramientas [8]per affrontare il proprio futuro.

Alcuni ragazzi sono perfezionisti, esigenti con se stessi e con gli altri e per loro è un sollievo grande il semplice dirsi tutti i giorni “ho diritto a sbagliare, mi impegno e tento di fare le cose il meglio che posso”. Alzano la testa e lo sguardo quando qualcuno insegna loro a volersi bene e che possono essere amati per la persona che sono in realtà, nel profondo, non per l’immagine che danno o per i successi che ottengono.
Grazie a tutto questo e alla loro voglia di una vita migliore e felice, dopo mesi, ho la gioia di sentire persone che a 50 anni dicono che iniziano una nuova vita, persone che scoprono l’amore per i figli, per la propria madre, per la propria vita, per Dio, che desiderano riprendere a studiare, che sperano un giorno di formare una famiglia dove ci sia amore…

Certo ci sono anche le recaidas [9]: mi viene detto che due sere prima è uscito senza tornare all’Hogar e dopo una settimana incontro lo stesso ragazzo, con gli stessi vestiti, ma con un volto diverso, nascosto fra le mani, irriconoscibile, con la pelle bruciata dal sole e la faccia gonfia per il tanto consumo. Mi si spezza il cuore perché un giorno li vedo impegnati nella propria riabilitazione e il giorno dopo piegati sul marciapiede.
Mi sono chiesta se valga la pena e quale sia il senso di provare ogni volta a mostrare loro un altro cammino, vista la difficoltà che il processo riabilitativo abbia esito positivo, visto quanto è facile tornare a bere, visto il poco tempo che alcuni di loro resistono in comunità.

La risposta è si, vale la pena impegnarsi per aiutarli a costruire una vita migliore, affezionarsi a loro e “curarli” come figli o fratelli minori, perché amano, soffrono, si arrabbiano, hanno paure, insicurezze, sogni e desideri come me e come ogni altra persona senza problemi di dipendenza, e sarò sempre io quella a imparare moltissimo da loro, contraccambiando sempre in minima parte.

Ed è per questo che li ringrazio di tutto e che voglio bene ad ognuno di loro, le mie wawas [10] del San Vicente.

Note:

1. Hogar: casa, comunità, istituto
2. refresco: bevanda zuccherata analcolica
3. madrastra: matrigna
4. Pachamama: Madre Terra
5. Tembladerani: quartiere di La Paz
6. “Quiero internarme”: “Voglio internarmi”
7. hermano: fratello
8. herramientas: capacità interne ed esterne per affrontare problemi e situazioni
9. recaidas: ricadute nel consumo di sostanze
10. wawas: bambini in lingua aymara

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