Caschi Bianchi Cile

MEMORIE DI LOTTA, SEMI DI PACE: LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA DELLA SOLIDARIETA’

Nel giorno della Liberazione d’Italia, J. S. ci racconta l’incontro e la storia di due uomini cileni che, dopo aver vissuto sotto la dittatura di Pinochet, camminano oggi a fianco del popolo Mapuche e ne sostengono la resistenza

Scritto da J.S., Casco Bianco in Servizio Civile con APG23 a Valdivia

In occasione del 25 Aprile, non potendo essere in Italia per celebrare la liberazione dal fascismo, ho comunque sentito il bisogno di rendere omaggio a questa giornata così significativa. Un bisogno che si fa ancora più urgente oggi, in un tempo in cui gli “ismi” tornano a farsi largo e molteplici guerre seminano sofferenza in diversi angoli del mondo.
Anche il Cile, dove mi trovo, ha vissuto un lungo e doloroso periodo di dittatura militare, terminato ormai da anni, ma le cui ferite sono ancora ben visibili, raccontate nei discorsi delle persone e custodite nella loro memoria. Durante il mio tempo qui, ho avuto modo di ascoltare molte storie di quel buio passato, storie che spesso sono rimaste ai margini della giustizia, senza trovare pieno riconoscimento o riparazione.
L’unica cosa che sento di poter fare è ascoltare con attenzione, dare spazio a queste voci e condividere queste memorie con altri, affinché errori così gravi non vengano dimenticati, e soprattutto, affinché non si ripetano.
In occasione della giornata della liberazione, ho avuto l’onore di ascoltare due uomini che potremmo definire “partigiani cileni”. All’epoca della dittatura militare in Cile erano ragazzi, pieni di sogni e di speranze, ma costretti a crescere in un clima di paura e violenza. Hanno visto l’orrore da vicino e, invece di voltarsi dall’altra parte, hanno scelto di resistere.
Facevano parte di quella che è stata chiamata generación perdida, la generazione perduta, cresciuta sotto il regime di Augusto Pinochet, in un paese segnato dalla repressione, dalla crisi economica, dalla disoccupazione e da un controllo capillare dello Stato. Il dissenso veniva represso con brutalità: arresti arbitrari, torture e sparizioni forzate erano all’ordine del giorno. Molti giovani, come loro, hanno perso amici e familiari, diventati desaparecidos per il solo fatto di aver espresso un’opinione, partecipato a una manifestazione, o semplicemente per essersi trovati nel posto sbagliato.
In quel contesto soffocante, la giovinezza fu loro strappata. I sogni si frantumarono troppo presto, insieme alla libertà e all’innocenza. Eppure, nonostante tutto, molti scelsero di non piegarsi e di continuare a lottare contro l’ingiustizia. Sono cresciuti in un tempo che sembrava non lasciare spazio alla speranza, ma proprio per questo hanno imparato a custodirla e a trasformarla in impegno.
Oggi i nomi dei desaparecidos riempiono i muri delle piazze della memoria in molte città del Cile. Ricordano uomini, donne e giovani la cui unica colpa fu quella di desiderare un mondo più giusto e più umano, un mondo di pace.
Ho avuto la fortuna di non leggere i loro nomi su una targa, ma di parlarci direttamente, di ascoltare le loro storie proprio il 25 aprile. In quell’incontro, però, abbiamo parlato poco dei giorni bui della dittatura. Memori dell’impegno sociale che ha caratterizzato gli anni passati, oggi hanno scelto di schierarsi dalla parte di chi, ancora oggi, ha bisogno di essere liberato. Pienamente consapevoli della condizione di precarietà in cui lo Stato cileno continua a tenere il popolo Mapuche, sono proprio al loro fianco, portando avanti con determinazione il loro attivismo.
La storica contrapposizione tra cileni e Mapuche, alimentata e sostenuta nel tempo da politiche economiche escludenti, da scelte istituzionali che hanno negato i diritti territoriali e culturali dei popoli originari, e da una narrazione ufficiale che ha criminalizzato le rivendicazioni indigene, ha generato e continua a mantenere viva una profonda diffidenza reciproca tra le parti.
Secondo questa retorica, i Mapuche sono dipinti come un popolo violento e pericoloso e, nella mentalità di molti cileni, sono considerati in qualche modo inferiori a causa della loro differente cultura. Allo stesso tempo, per alcuni Mapuche, i cileni restano stranieri o huinca, come vengono chiamati in lingua mapudungun, ossia coloro che hanno usurpato le loro terre ancestrali e li hanno relegati ai margini della società.
Durante il mio periodo in Cile ho potuto constatare come queste narrazioni siano ancora profondamente radicate da entrambe le parti.
Eppure, in una comunità Mapuche del sud del Paese, hanno scelto di superare le divisioni e i pregiudizi. Una delle persone che ho incontrato ha deciso, alcuni anni fa, di trasferirsi lì, affrontando le difficoltà di inserirsi in un contesto segnato dal peso della storia: la diffidenza legittima legata a secoli di espropriazione, discriminazione e violenza statale, ma anche le differenze culturali e linguistiche, rendono il percorso lungo e delicato.
Secondo me, la particolarità di questa comunità sta nella sua posizione: sorge infatti nel luogo d’origine di alcuni gruppi Mapuche che, nella lotta per la propria liberazione, hanno scelto la via armata. Sebbene il leader avesse inizialmente deciso di ricorrere alle armi per riconquistare le terre ancestrali, pagando personalmente il prezzo di questa scelta, una volta raggiunto l’obiettivo, non ne ebbe più motivo.
Una volta ottenute ufficialmente le terre, dopo decenni di lotta, la loro distribuzione all’interno della comunità è avvenuta in modo equo: nessuno è stato escluso, nonostante fossero stati in pochi ad aver effettivamente preso parte al conflitto.
Tuttavia, la rivoluzione non si è conclusa con la restituzione delle terre. La comunità ha scelto la via della pace, consapevole che il vero lavoro di liberazione era appena cominciato. Come mi è stato raccontato durante l’incontro, la rivoluzione non si porta avanti solo con i fucili, ma anche arando la terra, coltivando piante e alberi nativi, recuperando la cultura e le tradizioni ancestrali.
La forma di organizzazione di molte comunità Mapuche è profondamente distante dal nostro modello occidentale. In queste comunità, la vita collettiva si fonda sul bisogno reciproco e sulla solidarietà tra tutti i membri. Se qualcuno necessita di aiuto per lavorare la terra, gli altri si mobilitano senza esitazione; se qualcuno ha fame, si cerca di offrirgli ciò che si può. Il baratto continua ad essere una pratica viva e diffusa per gli scambi quotidiani.
È un modello basato sulla cooperazione, non sul profitto, e per questo inconciliabile con la logica capitalista. Qui nessuno è proprietario di nulla, perché tutto appartiene a tutti.
In occasione del 25 aprile, ho sentito il desiderio di scrivere qualche riga sul mio incontro, ispirato da ciò che mi è stato raccontato e che mi ha profondamente colpito.
Ho voluto condividere questa esperienza perché credo che rappresenti un esempio prezioso da cui tutti dovremmo imparare: un luogo in cui cileni e Mapuche, nonostante una storia segnata da conflitti e diffidenze, hanno scelto di unirsi, percorrendo insieme la strada della pace. In un mondo in cui prevalgono le divisioni e i rancori, questa comunità dimostra che è possibile ricostruire relazioni su basi di rispetto, solidarietà e riconciliazione. È una lezione di speranza e di coraggio che sento il bisogno di condividere. Oggi, più che mai, credo che abbiamo bisogno di ricordare che la resistenza vera è quella che sa trasformare il dolore in speranza.

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