D è un ragazzo di 16 anni che ho incontrato in prigione. La prima volta che parliamo è difficile comprenderci, perché lui parla quasi solo Pidgin. Con il passare delle settimane però i nostri colloqui diventano sempre più sinceri e intensi e D mi confida la sua storia.
D e tutta la sua famiglia nel 2016 scappano dalla guerra della zona anglofona del Camerun e si rifugiano nella regione dell’ovest, in un villaggio remoto e tranquillo. Nonostante la difficoltà con la lingua francese, D si distingue a scuola per la sua intelligenza e determinazione.
Una notte di inizio settembre dell’anno scorso, mentre il padre è lontano per un funerale, un uomo fa irruzione nella loro casa. D, svegliato dalle grida, corre insieme alla sorella e trova l’intruso occupato a torturare e violentare la madre: D, senza esitazione, inizia a colpire l’uomo, che cade a terra ferito. In quel momento, una folla di gente accorre nella casa, attirata dalle grida, e, quando capisce ciò che è accaduto, comincia a colpire l’uomo, fino ad ucciderlo. La madre, sconvolta, chiama la gendarmeria, che però risponde di non avere automezzi a disposizione per arrivare al villaggio. Quando arriva, cinque ore dopo, è già troppo tardi: l’uomo giace dissanguato sul pavimento, la folla si è dispersa, i gendarmi arrestano la mamma e i due figli maggiori con l’accusa di omicidio.
Quando mi parla e mi affida il suo dolore, D non è preoccupato per se stesso, ma mi chiede di andare nella sezione femminile del carcere per avere notizie della mamma e della sorella. Nonostante il nostro progetto non preveda di lavorare con le donne, sento subito il bisogno di seguire il loro caso e chiedo dunque un’autorizzazione speciale per poter andare da loro. La mamma, con le cicatrici visibili dell’aggressione e le lacrime che le solcano il viso, mi racconta ancora l’accaduto e mi supplica di aiutarli. Cominciamo allora ad andare a colloquio con il Presidente del Tribunale, il quale spiega che è una situazione molto complessa e delicata. La sorella maggiore viene liberata su libertà condizionale e un avvocato si coinvolge nel caso, ma parla solo francese e la comunicazione con la famiglia è quasi impossibile. Lavoriamo insieme con il Tribunale per ricostruire i fatti e donare giustizia.
Il giorno dell’udienza, anche il Procuratore è d’accordo: si è trattata di legittima difesa. Quando il Presidente del Tribunale sentenzia l’innocenza dell’intera famiglia, il mio cuore esplode di gioia. Gli abbracci e la riconoscenza della mamma, le lacrime e la gratitudine di D: ecco il vero senso di questo progetto, ecco il bene.
In questo Paese, garanzie fondamentali che noi diamo per scontate, come il diritto alla difesa e ad un avvocato, a un mediatore, a un supporto psicologico per i minori durante i processi, non sono rispettate. Troppe volte ascolto le storie di persone condannate senza avere neanche un’idea precisa del perché; storie di persone che non possono fare appello perché non conoscono la procedura o non hanno i soldi necessari per pagare le pratiche; storie di persone condannate a morte o al carcere a vita senza aver mai parlato nemmeno una volta con un avvocato.
Tutto ciò smuove in me un qualcosa che non pensavo di poter mai provare così intensamente: mi porta a mettere in discussione tutto ciò che credevo verità, mi porta a voler fare l’impossibile per cambiare le cose. L’incontro con D e la sua famiglia resterà sempre indelebile nel mio cuore e quotidianamente mi da la forza di continuare, mi fa credere che questa lotta non sia troppo grande da vincere: oggi sono fiera di saperlo di nuovo tra i banchi di scuola, di pensarlo in cucina con la madre, a giocare con la sorellina o ad aiutare il padre nei campi, finalmente LIBERO.
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