Bolivia Caschi Bianchi

Il valore della vita, a tutti gli L. di La Paz

“Per me l’incontro con L. resterà uno dei doni di questo anno di servizio civile” racconta Sara “e alla cui vita spero di ridonare un po’ di dignità portandolo con me nei miei ricordi e attraverso questo scritto. A lui e a tutti gli L. di La Paz”. Un racconto che vuole dare voce alla storia di L. e dei tanti come lui, che grida dolore, impotenza ma anche vicinanza e speranza

Scritto da Sara Baldelli, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 a La Paz

L. era un ragazzo che incontrammo durante una delle nostre prime uscite in strada.

Era inizio Settembre, eravamo arrivati da poco più di un mese in Bolivia e nonostante l’esperienza del “servizio calle” – strada –  non fosse qualcosa a me completamente nuovo e sconosciuto, il contesto e i posti in cui ci recavamo ad incontrare le persone per me erano ancora qualcosa di sconvolgente, al di là di ogni dignità umana. Luoghi nascosti ai margini della città di La Paz, vicino a fiumi trasformati in discariche maleodoranti a cielo aperto, tra montagne di plastica ed immondizia.

Di quel primo incontro e delle tante persone che erano lì quel giorno, tra cui L., mi ricordo quindi poco, ero perlopiù intenta a guardarmi attorno incapace di credere e di capacitarmi di come il consumo, o ancor meglio la dipendenza, dall’alcol potesse portare le persone a vivere o a scegliere di passare parte delle loro giornate in tali condizioni, buttati a terra tra la sporcizia, la polvere, i topi, il cibo marcio e l’odore di escrementi.

La seconda volta che ritornammo in questo luogo denominato “La Playa”, tra una chiacchiera e una canzone, il gruppo iniziò a raccontarci la storia di L., dicendo che era un giovane di quasi 40 anni, che però a causa del suo consumo ormai incontrollato, aveva perso i contatti con la famiglia e la possibilità di potersi permettere e mantenere un luogo dove vivere, motivo per il quale la sua dimora era diventata “la carpa“, come la chiamano loro, ossia quella sorta di accampamento costruito con qualche bastone, teli di plastica e lamiera a fargli da tetto, e materassi sudici a terra, che ci trovavamo davanti ai nostri occhi. La carpa è sempre piena di persone che passano lì le loro giornate a bere in gruppo ed è sempre pronta ad accogliere per qualche notte chi è troppo ubriaco per tornare a casa, ma i suoi abitanti fissi sono davvero pochi, solo chi ha perso davvero tutto ne fa la sua casa ed L. era uno di questi.

Facendo leva sulla sua condizione e la sua giovane età il gruppo iniziò quindi ad insistere sul fatto che dovessimo portarlo in Comunità affinché si riabilitasse e potesse riprendere in mano la sua vita, questo però senza lasciar esprimere un’opinione al diretto interessato, per il quale tutti stavano cercando di prendere decisioni. E infatti nel momento in cui interpellammo L. per chiedergli cosa ne pensava, consapevoli che nonostante tutto in quelle condizioni di forte ebbrezza non lo avremmo potuto portare con noi, con un sorriso e gli occhi persi nel vuoto ci rispose che non gli andava. Gli spiegammo che però in qualsiasi momento in cui gli sarebbe venuto il desiderio – o la lucidità – di pensare di aver voglia di cambiare, anche solo per la stanchezza di continuare a vivere in quella maniera, avrebbe solo dovuto presentarsi sobrio davanti alle porte della Comunità di San Vincente, una delle comunità terapeutiche dove svolgo il mio servizio civile, e ci sarebbe stato sicuramente qualcuno pronto ad accoglierlo. Lui, con la convinzione che solo un grande dipendente ti sa dare, tanta è l’abitudine a cercare di convincere le persone che lo circondano che un giorno cambierà, ci rispose che sarebbe andato l’indomani stesso. Dentro di me sapevo che non sarebbe mai successo, ma un piccolo barlume di speranza c’era.

Al successivo incontro ricordo che era seduto su un sasso un po’ isolato dal gruppo e decisi di fermarmi a parlare con lui per sfruttare quel momento in cui era solo, gli chiesi come stava e lui mi rispose che non si sentiva bene e che per questo stava cercando di diminuire progressivamente il consumo di alcol. Non ci fu un lungo scambio di parole, non era facile intrattenere una conversazione con lui ma ricordo bene i suoi occhi tristi e sofferenti, il suo viso, ancora pieno di capelli per la sua giovane età, bruciato dal sole cocente di La Paz, le sue labbra rovinate dall’alcol e le sue mani nere, per la poca o inesistente pulizia dovuta alla sua vita in strada.

Questo è il mio ultimo ricordo di L. seduto, da lì in poi lo iniziammo a vedere solo steso e ogni volta, sempre peggio, in un declino totale e inesorabile, i  suoi piedi e le sue gambe nude sempre più gonfie. Ci diceva qualche parola a malapena e ci iniziarono a raccontare che ormai non riusciva più a camminare o ad alzarsi, che non mangiava, e così ogni volta che mi allontanavo dalla “Playa” cresceva in me la consapevolezza e la paura che forse quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei rivisto.

E alla fine andò proprio così, L. morì in strada, nella “carpa“, a metà Ottobre. I suoi compagni provarono in qualche modo, e come poterono, ad evitarlo ed ad aiutarlo quella, notte ma fu inevitabile.

L. non è stata né la prima né l’unica persona che ho conosciuto che è morta in strada, ma fu la prima che ho conosciuto morire in delle condizioni così disumane. In un luogo dove neanche l’ambulanza o alcun tipo di mezzo sarebbe mai potuto arrivare per soccorrerlo, e anche se fosse stato possibile, non l’avrebbero mai ricoverato o non avrebbero fatto qualcosa per lui, perché L. faceva parte di quel lato di società per cui non vale la pena, una di quelle vite che non è importante salvare, tantomeno perché non avrebbe avuto i soldi per qualsiasi tipo di intervento medico; per cui ad ogni modo per lui non ci sarebbe stata nessun tipo di possibilità.

Il giorno e la situazione in cui abbiamo appreso la notizia della sua morte forse è stato per me il momento più destabilizzante e sconvolgente. Non tanto per la notizia in sé per sé, perché era qualcosa che da tempo sapevamo e ci aspettavamo che sarebbe successa, ma da chi e come ne siamo venuti a conoscenza.

Ricordo che quel giorno mentre scendevamo alla “Playa” notai che le persone, stranamente poche, erano raggruppate in un luogo dove spesso si mettono nelle giornate di sole per riscaldarsi un po’, ma quel giorno lì era già tardi ed ombreggiato, in più si intravedevano da lontano varie donne ed una cholita – donna con l’abito tradizionale boliviano – ben vestite e curate, difficili da vedere in quelle zone.

Quando ci avvicinammo vidi che questa signora aveva una grossa busta piena di foglie di coca che stava offrendo ai pochi bevitori che c’erano quel giorno, assieme ad una bibita gassata, e subito ho pensato che fosse una delle tante persone del quartiere che viene a visitare e a regalare qualcosa di tanto in tanto.

Iniziamo quindi a salutare los hermanos come di consueto e prontamente ci vengono fatte le presentazioni: erano la madre, la moglie, la sorella, l’ex moglie e il figlio di L., venuti fin lì da varie città della Bolivia, appena saputo della sua morte, per dargli l’ultimo saluto, per vedere con i loro occhi dove avesse passato gli ultimi mesi della sua vita e per omaggiare chi lo ha accompagnato fino alla fine. Sentire i racconti di come lo avessero cercato con tutti i mezzi di cui disponevano, vedere le foto di come era prima di perdersi, osservare suo figlio con gli occhi persi nel vuoto che continuava a guardarsi attorno, ascoltare di come gli “inquilini” della carpa avessero fino all’ultimo cercato di aiutarlo e di salvarlo e pregare e onorare il ricordo di L. assieme a queste persone è stato per me emotivamente difficile e straziante allo stesso tempo.

Dentro di me le domande continuavano a susseguirsi una dietro l’altra all’impazzata e la tristezza, mescolata alla rabbia e all’impotenza, esplodevano dentro di me, senza però riuscire a trovare voce o parole per essere espresse.

Venire a conoscenza della morte di L. attraverso questo ulteriore incontro ha creato in me un forte sgomento, non sarebbe forse stato più facile accettarla senza vedere la sua famiglia, così disperata e sofferente?

Ma soprattutto perché? Perché una vita sprecata così? Solo, in mezzo all’immondizia ed ai topi? Perché lasciarsi andare in quella maniera con tutte le persone che aveva ancora al suo fianco che lo amavano?

Perché scegliere una vita del genere quando ancora c’era chi sperava di poterlo riabbracciare ed era disposto a dargli un’altra possibilità?

A quanto e fino a che punto può portare una dipendenza?

Avremmo potuto fare di più per evitare o perlomeno ritardare tutto questo? Avrei dovuto chiedere o domandare di più a L. sulla sua famiglia? Quanto in realtà però lui aveva le forze e la voglia di cambiare?

Penso che a queste domande non ci sarà mai una risposta, ma per me l’incontro con L. resterà uno dei doni di questo anno di servizio civile e alla cui vita spero di ridonare un po’ di dignità portandolo con me nei miei ricordi e attraverso questo scritto.

Un incontro che non è stato fatto di tante parole o grandi discorsi, non abbiamo condiviso tanto tempo insieme, forse neanche un’ora tra tutto, ma è stato fatto sì di sguardi, strette di mano e pacche sulle spalle, con le quali cercavo, per quanto insignificanti e banali siano come gesti, di infondergli un po’ di forza, di comprensione e di coraggio per andare avanti.

Un incontro, che sicuramente avrà significato molto più per me che per lui, ed una persona che ho avuto modo di conoscere soprattutto dalle parole di altri più che dalle sue, ma a cui spero con questo racconto di aver dato voce.

A lui e a tutti gli L. di La Paz, morti nelle periferie e ai margini della città, nei luoghi più abbandonati e dimenticati, come R. e tutti gli altri hermanos che abbiamo visto nel corso di questi mesi perdere la vita in strada a causa della dipendenza dall’alcol, nella solitudine, privati della loro dignità umana.

A lui e a tutti gli L. di cui nessuno si ricorda il nome né il volto, che la loro vita e il loro passaggio su questa terra non sia vano ed insignificante.

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