“TEACHER COME! YOU ARE IN THIS CLASS NOW”. Così iniziano la maggior parte delle mie lezioni. A gridarmi di entrare sono stati bambini di classi diverse, che si avvicinano, mi prendono per mano, agitano le mani dalle finestre. Io mi dirigo verso la classe giusta, battendo una ventina di cinque. Entro. «Bonjooour comment ça va?» Dico io. Rumore di metallo e legno che strisciano, tonfi, scricchiolii, libri per terra. Si sono alzati. «BONJOOUUUUR ça va bien merci et toi?» Qui in Kenya si saluta sempre chiedendo come stai, non esiste un saluto che non lo includa e si risponde sempre la stessa cosa: bene. Poa. Nzuri.
Una volta ho aspettato dieci secondi più del solito a salutarli e mi sono sentita chiamare: “TEACHER! NON CI HAI SALUTATI”. Ci tengono tantissimo ai saluti, come ci tengo io a scrivere in Caps Lock tutto ciò che dicono, non si può spiegare.
Lezioni da 35 minuti, due intervalli a mattina. Nonostante ciò, le mie lezioni iniziano puntualmente con tre o quattro “posso andare in bagno?”. Io li guardo. Come si fa? Penso che due minuti prima mi stavano pregando di andare a far lezione nella loro classe. Sospiro. Però ormai ho imparato a giocare come giocano loro. Chiedimelo in francese, dico. Loro sgranano gli occhi, si girano, fanno per andare verso il banco, si rigirano, ridono sotto i baffi.
Eskogiopoaletualet?
Tutta la classe ride, io sorrido. Come si fa? Penso di nuovo. Mi insegnano che non è necessario prendere tutto sul serio, che giocando si impara tantissimo e che possono partecipare tutti, anche l’insegnante, anche la ragazzina nell’angolo dell’ultima fila.
Il gioco, però, non è il solo motivo per cui ho deciso di far chiedere sempre in francese, a volte anche durante lezioni di altre materie, di poter andare in bagno. Il motivo principale è la short call. La prima volta che me l’hanno chiesto ho dovuto farlo scrivere su un foglio e farlo ripetere una decina di volte. Perché poi si vergognano e come per magia la bocca si chiude in un sussurro: «teacher may I go short call?». Niente telefoni signore e signori. Il soggetto in questione sta richiedendo l’autorizzazione per poter andare ai servizi, presumibilmente per qualcosa di breve durata. Lascerò in disparte le riflessioni su quanto sia emblematica la richiesta kenyota di andare in bagno. Dopo essermi informata sulla questione, prima cercando su internet, mettendo in dubbio la mia conoscenza dell’inglese e poi chiedendo a loro, comprovando l’esistenza della consorte long call, ho sorriso di nuovo. E sorridendo ho deciso di affidarmi alla discriminazione ed escluderla dalle mie lezioni.
La questione della short call è un chiaro esempio della barriera linguistica che ci si ritrova ad affrontare qui in Kenya, senza neanche dover menzionare lo Swahili. Qui si parla il loro inglese, la pronuncia in primis. Una delle prime cose che mi sono state dette dai miei colleghi è stata “il tuo inglese è difficile da capire”. Ora quindi sto anche imparando questa nuova lingua, un’altra potentissima ragione per cui dovrei impegnarmi il più possibile per imparare lo Swahili.
Nel mentre mi ritrovo senza voce. Io, che in tutta la mia vita non avevo mai alzato il tono di un mezzo grado. Però mi ricaricano sempre; finisco spesso le mie lezioni con una competizione a gruppi, per vedere chi sa rispondere a più domande. Poco prima che finisca la lezione, chiedo l’ultima. Qualche millesimo di secondo e poi tutti in piedi, mi chiamano, gridano: “TEACHER ME! TEACHER HERE!” Ascolto le risposte di tutti, non dico nulla. Poi succede tutto insieme: prendo il gesso, segno il punto della squadra vincente, suona la campanella. È il caos. Tutti gridano, saltano, si fanno le boccacce. E io ritiro il gesso, sorrido ed esco dalla classe, con la soddisfazione dipinta in faccia: “Au revoir!” – “AAAUU REVOOOIR!”
Come si fa? Come si fa a non amarli tutti?
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