Corpi Civili di Pace Perù

Il mio mondo prima del virus

Il sostegno alle comunità indigene e rurali

Scritto da Cecilia Sartori, Corpo Civile di Pace con Focsiv a Lima

27.04.2020. Il mio mondo prima del virus era a Lima, tanto sterminata quanto inquinata capitale del Perù che accoglie all’incirca 11 milioni di abitanti, un terzo della popolazione nazionale. Questa città è stata il terreno in cui il mio progetto da Corpo Civile di Pace (CCP) gettò le sue radici a luglio dell’anno scorso.
Tutte le mattine affrontavo le insidie del temibile traffico limegno con la mia bicicletta per raggiungere l’ufficio di Red Muqui, una federazione di 29 ONG locali unite da una vocazione comune: proteggere le comunità e l’ambiente dagli abusi delle imprese minerarie. Una piaga, quella creata dall’ industria estrattiva in Perù, che ha devastato interi ecosistemi e che al giorno d’oggi è responsabile di 96 conflitti socio-ambientali[1] dislocati lungo tutta la cordigliera andina peruviana. Il mio supporto alle attività riguardava principalmente la collaborazione nella denuncia mediatica delle violazioni dei diritti umani connessi alle operazioni di estrazione di minerali, nonché nel coordinamento di campagne di comunicazione e iniziative di advocacy. Lo facevo, in poche parole, attraverso la realizzazione di video, fotografie, testi e materiale grafico per le reti sociali.

Accrescere la consapevolezza tra la popolazione sui numerosi conflitti socio-ambientali legati all’industria estrattiva è uno dei capisaldi dell’operato di Red Muqui, il cui obiettivo ultimo consistite nell’ottenere l’implementazione di politiche pubbliche che favoriscano la  giustizia sociale e ambientale. Va da sé che per promuovere ciò, gran parte delle proprie azioni debbano essere rivolte laddove le decisioni vengono prese. Ecco allora che i palazzi del potere di Lima diventano la scenografia dominante nei nove mesi della mia esperienza all’estero e, l’altro grande protagonista del progetto, si converte in corso d’opera in un personaggio minore che appare sulla scena sporadicamente. Mi riferisco all’altra roccaforte di Red Muqui, ovvero l’accompagnamento alle popolazioni rurali e indigene nei processi di potenziamento della propria capacità organizzativa interna; uno strumento necessario per fronteggiare consapevolmente le violazioni dei propri diritti.

Laddove la precarietà si fa bussola per avventurieri di vita, gli alberi dei progetti a lungo termine fanno fatica a mettere radici profonde. Basta che si alzi un vento diverso e l’indeterminatezza dell’hic et nunc propria di quelle terre torna presto a fare da padrone. Il sostegno in loco alle comunità, condotto principalmente dai colleghi dell’area ambientale di Red Muqui, rappresentava un punto cruciale nelle attività della federazione e, per quanto mi riguarda, avrebbe riscattato la centralità del proprio ruolo nel mio progetto CCP esattamente negli ultimi tre mesi rimasti. Il piano d’azione era il seguente: unirsi al lavoro sul campo per raccontare la voglia delle comunità rurali e indigene di rivendicare la propria forma locale di consumo e produzione sostenibile affermandola come valida alternativa al modello di sviluppo economico estrattivista promosso dallo Stato.

Ciò che è certo è che non è stata la calda brezza di piena estate proveniente dal mare di Lima a scombinare i piani della mia esperienza all’estero, né l’instabilità politica intrinseca al Paese, ma piuttosto un tornado tristemente conosciuto come coronavirus. L’epidemia ha obbligato il mondo intero a condividere il qui e ora come forma di resistenza all’impasse a cui siamo stati costretti. Per me, come per molti altri, ha dato una brusca frenata alla mia vita dall’altra parte dell’oceano. Per Red Muqui, ha significato lo stop a tutte le attività di accompagnamento alle comunità fino a data destinarsi. Per le comunità, il coronavirus ha evidenziato non solo l’assenza dello Stato e la mancanza di accesso a servizi basilari come l’assistenza sanitaria, ma anche l’abbandono di tutte le organizzazioni sociali che prestavano loro supporto. È ancora presto per capire quali saranno gli effetti a lungo termine della pandemia, ma ciò che già sappiamo è che chi pagherà il conto più salato sarà ancora una volta la parte più vulnerabile della società, quella che non si può permettere di rispettare le misure di contenimento come il distanziamento sociale perché vive di quello che guadagna ogni giorno.

Era esattamente il giorno prima dell’annuncio del lockdown peruviano, sabato 14 marzo, quando alla prime luci del mattino ricevetti la telefonata che avrebbe cambiato le mie sorti. La voce all’altro capo del telefono non lasciava spazio a speranzose interpretazioni: “Prepara in fretta le valigie, questa sera salirai su un areo per Roma”. Io, le valigie, nemmeno ce le avevo.

Dal 15 marzo, in Perù, è stato dichiarato lo stato di emergenza. Con lui è arrivato il coprifuoco ed è iniziata la quarantena. Da allora, tutti i miei colleghi lavorano da casa, obbligati a proseguire i propri incarichi da remoto. Il mio mondo durante il virus è in Italia, continuando in smartworking assieme a loro il mio progetto da Corpo Civile di Pace. I tavoli di lavoro sono presto diventati video-conferenze così come le consuete riunioni d’ufficio settimanali. Ovviamente ho dovuto annullare con amarezza le missioni sul campo in calendario e adattare le attività in programma alla nuova situazione. La campagna sulle alternative di sviluppo economico verrà rimodulata alla luce dell’epidemia e si focalizzerà sull’importanza dell’agricoltura familiare nell’assicurare la produzione degli alimenti da cui tutti dipendiamo. Quando il vecchio dogma occidentale ‘the show must go on’ è saltato e tutto si è paralizzato, anche lo Stato al sud del mondo noto per le celebri rovine incaiche ha congelato ogni attività non essenziale. Ogni attività, certo, ma non l’estrazione di minerali. Di conseguenza anche il lavoro di Red Muqui non si è fermato. Le denunce di focolai di contagi negli accampamenti minerari effettuate dai lavoratori del settore non hanno tardato ad arrivare, trasformando così l’ufficio stampa e comunicazione di Red Muqui – convertitosi in una scrivania in Italia e una terrazza di Lima – in megafono delle segnalazioni ricevute. La funzione di monitoraggio delle norme legali emanate, svolta dall’area legale della federazione, è rimasto un tassello fondamentale per continuare a mantenere alta l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani in Perù. È il caso, ad esempio, della serie di regolamenti che hanno conferito alle forze armate l’immunità giudiziaria durante l’emergenza sanitaria. Bastano questi due cenni di ordinarietà peruviana in tempo di Covid-19 a far capire che il mandato di Red Muqui non è venuto meno con l’avvento della pandemia, al contrario. Da parte mia, la motivazione a concludere quanto iniziato è alta e la voglia di superare le difficoltà del lavoro a distanza altrettanto.

Il mondo dopo il virus è uno scenario che risulta ancora difficile da immaginare. L’epidemia passerà, ma è probabile che ci ritroveremo in una società diversa, migliore o peggiore lo scopriremo domani. Sicuramente sarà plasmata dalle misure prese oggi e dalle azioni messe in campo da tutti per affrontare la crisi. E in questo sono certa che Red Muqui, ed io nel mio piccolo, continueremo a denunciare oggi per evitare che i provvedimenti che tolleriamo in tempi di crisi si convertano in quotidianità in tempi normali.

Il mio rimpatrio è stato tanto repentino da non concedermi nemmeno di salutare le persone care. Da un giorno all’altro mi sono ritrovata in Italia senza aver il tempo di capire col cuore cosa stesse succedendo. Sono rientrata da quasi un mese e mezzo e le valigie sono ancora da disfare. Il mio orologio segna ancora l’ora peruviana.  Buona parte di ciò è sicuramente ascrivibile a una risaputa inclinazione alla procrastinazione nei riguardi delle cose che non amo fare, ma questa volta non c’è solo quello. A chi si nutre di lentezza per metabolizzare i processi interiori, la rapidità degli avvenimenti mozza la lingua. Le parole stentano ad uscire e per questo mi rifaccio a quelle di un amato avventuriero di vita portato via da questa pandemia. In Patagonia Express, Luis Sepúlveda narra il racconto di un professore incrociato nella parte argentina. “L’orologio – diceva la scritta che uno dei suoi alunni riportava proprio sull’orologio –  serve a pesare i ritardi. Anche l’orologio si guasta, e così, allo stesso modo in cui le auto perdono olio, l’orologio perde tempo”.

Il mio orologio perde 7 ore, quelle del fuso orario con Lima.

[1] https://muqui.org/wp-content/uploads/2019/11/Agenda-Popular.pdf

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