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Caschi Bianchi Filippine

UN TESORO DAI NOSTRI ANTENATI

La storia di tre donne indigene delle Filippine di fronte ai cambiamenti storici che interessano la loro cultura

Scritto da Guendalina Cragnolini, Casco Bianco in Servizio Civile con Caritas Italiana a Capiz

Io e la mia compagna siamo nelle Filippine ormai da qualche mese. Inserite nelle attività di CASAC, la Caritas della diocesi locale (Capiz Social Action Center, nella provincia di Capiz, Visayas Occidentali) abbiamo anche l’opportunità di partecipare ad un progetto presso una comunità di persone indigene situata nell’entroterra della provincia, sul monte Tag Ao. Abbiamo già visitato la comunità alcune volte, quando possiamo finalmente, piene di entusiasmo e curiosità, svolgere le prime interviste ad alcuni membri della comunità.

NANAY MARINA E NANAY LOLITA RACCONTANO LA CULTURA ATI

Inizialmente, un mio grande interesse riguardava la medicina tradizionale. Per questo sono venuta a contatto con due signore, anziane del villaggio, di cui mi è stato parlato proprio in merito alla loro conoscenza dei metodi di cura tradizionali. Si chiamano Marina e Lolita, ma qui vengono chiamate nanay, cioè madre. All’interno del sistema di rispetto della cultura filippina, non ci si rivolge alle persone chiamandole solo per nome, ma indicando un ruolo, consono all’età: abbiamo quindi nanay (madre), tatay (padre), ate (sorella maggiore), kuya (fratello maggiore), e così via.

L’intervista con le due nanay è organizzata dopo un’attività del team della Caritas diocesana. Fin dall’inizio, noto quanto sia necessario adattarsi alla situazione. Ciò che io mi immaginavo potesse essere un’intervista in un contesto tranquillo e silenzioso, che faciliti l’interazione, si rivela un momento di istoria istoria, termine comunemente utilizzato per indicare un momento di apertura, di condivisione sia di pensieri profondi come anche di piacevoli battute. Una conversazione in cui loro possono sentirsi a loro agio, per parlarmi e aprirsi. Ci sediamo quindi in un angolo della zona comune di ritrovo del villaggio, in mezzo a persone che camminano accanto a noi. Durante l’intervista ci viene offerto un dolce tipico preparato da altre donne. Mi immergo, quindi, in questo momento di confronto, fa tutto parte dell’esperienza e accolgo con interesse questo (per me) inusuale “setting” d’intervista. Sono aiutata da una collega per la traduzione. Io ancora non parlo la loro lingua, le due signore comprendono quasi tutto il mio inglese, ma non sono a loro agio a parlarlo. Parlano quindi in Hiligaynon, la lingua locale della provincia, con la mia collega.

Dopo le prime domande in merito alla medicina tradizionale, i racconti delle due donne virano spontaneamente su un altro tema, in parte legato al primo: l’importanza di preservare la cultura nativa, che rischia di andar perduta. Accolgo di buon grado questo cambiamento di tematica: l’ascolto è la prima risorsa per poter comprendere la realtà delle persone e per poter capirne le necessità. Le due donne mi riportano quanto per loro sia fondamentale la preservazione della loro cultura nativa, la cultura Ati.

LA CULTURA ATI NEL CONTESTO FILIPPINO

La comunità che vive a Tag Ao è costituita infatti da 200 persone, per la maggior parte appartenenti all’etnia indigena di nome Ati. Questa etnia rientra nei circa 110 gruppi etno-linguistici presenti nelle Filippine, che includono tra i 14 e i 17 milioni di persone indigene, ossia circa il 15/18% della popolazione totale dello stato[1]. Le persone cosiddette Ips, Indigenous People, sono una categoria riconosciuta e tutelata da normative nazionali delle Filippine e il principale ente nazionale incaricato è la NCIP, la National Commission for Indigenous People, fondata nel 1997. La problematica della preservazione culturale è ora un tema che tocca i più svariati luoghi del globo, e che interessa anche la comunità di Tag Ao.

Nay Marina e nay Lolita sono tra le persone più anziane del villaggio e, come molte persone qui presenti, sono imparentate. Sebbene abbiano avuto storie diverse nelle loro vite, per entrambe è di grande importanza la preservazione della cultura, di fronte a cambiamenti sociali molto rapidi che portano influenze soprattutto da parte di culture provenienti da contesti socialmente e politicamente più potenti. Nay Lolita racconta di come “In passato le Filippine avrebbero dovuto essere un posto per le persone indigene, ma che noi siamo state lasciate indietro, perché non abbiamo una voce. Perché non ci hanno dato l’opportunità di esprimere le nostre idee e parlare dei nostri diritti”. Parole molto forti, che fanno riflettere sull’effettiva rappresentanza, per le persone indigene, da parte degli enti nazionali.

LE NUOVE GENERAZIONI ATI

Un’ulteriore tematica è la difficoltà a trasmettere le tradizioni alle nuove generazioni. I minori (e non solo) della comunità hanno nuovi interessi, passioni, e mi incuriosisce come anche qui i giovani partecipino al vivace mondo dei social media a espressione visuale, strumento che permette loro un contatto così vicino con realtà lontane e varie, talvolta così attraenti. Inoltre, mi raccontano le due donne, per i giovani è molto difficile mantenere la loro cultura nativa, anche a causa delle forti discriminazioni che subiscono, proprio per la loro appartenenza all’etnia. Molti ragazzi vengono bullizzati a scuola e si vergognano di essere Ati. Secoli di colonizzazione da parte di diverse potenze mondiali (prima gli spagnoli e poi gli Stati Uniti) hanno fortemente influenzato le discriminazioni etniche interne alle Filippine (basti pensare ai canoni di bellezza che associano un colore di pelle più chiaro a caratteri positivi della persona), e le persone indigene sono ancora oggi discriminate in molti contesti, come quello lavorativo, scolastico, sanitario. Nay Marina racconta come sia lei che la figlia siano state trattate in modo svilente all’interno di strutture sanitarie pubbliche, a causa della loro appartenenza etnica. Per le nuove generazioni è quindi difficile affermarsi come persone indigene, e mantenere le loro tradizioni.

Nay Lolita fa riferimento ai suoi nipoti, i bambini di cui è nonna. Qualche settimana dopo, ho l’occasione di parlare anche con una dei sue sette figli, Melodina, che meglio mi racconta delle difficoltà di trasmettere la cultura Ati ai bambini. Melodina è una donna molto socievole, parliamo allegramente in inglese. Anni fa ha infatti vissuto, presso parenti, in alcune città più grandi, dove ha studiato e lavorato anche utilizzando l’inglese. Inizialmente, scherziamo sul fatto di aver vite così diverse, anche avendo la stessa età. In questi contesti, anche un espediente piccolo come avere la stessa età può essere fonte di sorrisi. Melodina ha già due figli ed è incinta del terzo. Non era stato pianificato, è stato un “dono del signore”, ma scherza dicendo che spera sia solo un bambino: “non ci sarebbero i soldi per sfamarne due”.

INATI: LA LINGUA MADRE ATI

Mi parla a lungo della loro lingua madre, la lingua inati. Lei, la madre Lolita e i fratelli sono una delle pochissime famiglie del villaggio che ancora parla quotidianamente inati. Molti altri membri della comunità conoscono la lingua, ma utilizzano più solitamente l’Hiligaynon, lingua della provincia di Capiz, e in parte anche il Tagalog, la lingua nazionale delle Filippine. Sebbene Melodina parli inati con i suoi fratelli e sorelle, non lo parla con i figli. Il motivo principale è che suo marito non è Ati e viene da un’altra zona geografica. Si sono conosciuti tramite internet, strumento che sì, può far conoscere persone e può far nascere relazioni romantiche anche in remoti villaggi delle colline filippine. È curioso il fatto che io ne sia stata così stupita. Dopo il matrimonio, il marito di Melodina ha deciso di trasferirsi nel villaggio della moglie, sul monte Tag Ao, e la lingua comune tra i due è l’Hiligaynon, la stessa lingua con cui parlano ai figli. Melodina mi comunica il suo grande dispiacere nel non riuscire a trasmettere la lingua inati ai figli, ma di non sapere come fare. I matrimoni tra persone Ati e persone non Ati sono piuttosto comuni qui nel villaggio, fatto che indica una relazione positiva tra diverse entie, ma che risulta una componente importante nella trasmissione culturale alle nuove generazioni.

IL RISCHIO DI IMPOVERIMENTO CULTURALE

I motivi della possibile perdita culturale che la comunità di Tag Ao sta affrontando sono vari e complessi. Accanto ai matrimoni con persone non indigene, ci sono i nuovi interessi delle persone, l’incontro con altre culture, le dinamiche tipiche di un mondo globalizzato. Alcune persone del villaggio non hanno molto tempo da dedicare a questo tema: molte famiglie qui sono povere e gli sforzi di molte persone devono concentrarsi sul lavoro che può permettere una vita il più possibile agiata a loro e ai loro figli.

Un altro esempio mi è spiegato da Nay Marina, mentre mi parla dei metodi di cura tradizionali. Per lei è molto importante mantenerli e mi parla di numerose occasioni in cui si rivelano più efficaci dei farmaci della medicina ospedaliera. Tuttavia, anche queste pratiche stanno lentamente scomparendo. Lei stessa, che usualmente prepara unguenti e medicinali, ormai non si ricorda più molte ricette dei suoi genitori e parenti. Il passaggio di questi saperi è sempre stato unicamente in forma orale, tanto che in passato erano scoraggiate altre forme di trasmissione. E le tradizioni orali, purtroppo, sono tra le prime a rischio di scomparsa. Non sono solo i metodi di cura tradizionali e gli antichi rituali che rischiano di essere dimenticati: in assenza di fonti scritte, la stessa memoria storica della comunità ormai non è ricordata da molte persone, che non rammentano gli spostamenti che la comunità ha vissuto negli scorsi secoli.

Dopo queste interviste e altri confronti con i membri della comunità, il pericolo di perdita culturale della comunità mi sembrava chiaro. Ma è effettivamente un pericolo? E se sì, perché? Se non necessario, è almeno utile mantenere dei tratti e delle tradizioni culturali? L’identità delle persone è sempre composta da numerosi aspetti, in base al contesto, la personalità, il periodo storico… E in alcuni casi, la componente culturale può essere più importante di altri aspetti. Nay Lolita esprime bene l’importanza di tale componente: è importante mantenere la nostra cultura, e trasmetterla ai bambini. E tornare ai giorni in cui parlavamo la lingua e raccoglievamo le erbe medicinali. Vorrei che i bambini fossero fieri di essere Ati. Perché ciò che abbiamo ora è un dono, un tesoro dai nostri antenati, che ci hanno passato i nostri genitori. In un contesto in cui spesso le persone native sono discriminate per essere indigene, l’affermazione consapevole dei loro tratti culturali potrebbe giovare molto alla complessa identità soprattutto delle nuove generazioni. In modo che essere Ati possa per loro essere associato ad aspetti positivi, vitali, gioiosi. E che tali aspetti possano essere condivisi con la società più ampia, in modo che vengano riconosciuti e rispettati.

IDENTITA’ CULTURALE: UNA QUESTIONE COMPLESSA

A lungo si potrebbe riflettere su cosa definisca un’identità culturale. Un mio collega qualche settimana fa mi riporta questa riflessione: “Sono ancora indigeni se non si ricordano più le tradizioni dei loro genitori? Se non hanno più tempo per esprimere la loro cultura nei rituali svolti in passato nelle festività annuali, come il periodo della raccolta della canna da zucchero?”. Cosa definisce una persona o una comunità indigena? La discendenza sanguinea? La pratica di rituali antichi, o di una lingua o una religione specifica? O il riconoscimento e la categorizzazione da parte di politiche nazionali? La situazione è molto complessa, e vede l’intersecarsi delle componenti della personale identificazione degli individui, delle definizioni di categorie burocratiche contenute nelle normative, e dei riconoscimenti da parte della società più ampia.

Una mia personale riflessione interessa anche come i cambiamenti sociali e storici possano portare mutamenti culturali nei più variegati contesti della Terra. Una lingua nativa può rischiare di scomparire in un villaggio delle Filippine, come anche in un paese del Friuli collinare. Anche il friulano, una delle mie prime lingue, è utilizzato da sempre meno persone con il passare del tempo. E capisco quanto la lingua possa essere una componente legata così strettamente a parti profonde dell’identità, legate all’ambito dell’intimità familiare, ciò che in Italia chiameremmo il “focolare domestico”.  Sono così numerosi gli aspetti che possono connettere persone che vivono in luoghi lontani. Anche questo, come tantissimi altri aspetti, è un punto in comune, qualcosa che può far avvicinare persone che vivono lontane, che permette di creare connessioni tra culture diverse.

NUOVE IDEE E INIZIATIVE PER PROMUOVERE LA CULTURA ATI

Di fronte a queste difficoltà, Nay Lolita, Nay Marina e Melodina mi parlano anche di possibili strategie per promuovere la loro cultura Ati. Nay Lolita mi racconta di aver proposto alla NCCA, la National Commission for Culture and Arts (Commissione Nazionale per la Cultura e l’Arte, altro ente fondamentale per la preservazione culturale nelle Filippine), la creazione di uno spazio dove i bambini e i ragazzi possano incontrarsi e dove vengano insegnate loro la lingua inati e le tradizioni Ati. Entrambe le due donne anziane mi raccontano poi di ritrovi dei leader di tutte le comunità Ati dell’isola, che si tengono annualmente, per tenersi aggiornati sugli sviluppi delle comunità e per riflettere insieme sulle tematiche culturali. Accanto a questi ritrovi dei leader anziani, ci sono i ritrovi dei rappresentati giovani delle stesse comunità. Un altro giorno, qualche settimana dopo nay Marina indossa una gonna tradizionale, con colori vivaci. Non è comune per il villaggio utilizzare questi abiti, e lei è felice di parlarne. La indossa proprio per farla conoscere. Fiera mi mostra un video in cui, con indosso la stessa gonna, nay Marina balla una danza tradizionale sul palco in uno dei ritrovi delle persone Ati. Iniziative e idee per promuovere la cultura esistono, e con i giusti mezzi potrebbero davvero apportare benessere nella vita di queste persone. Inoltre, rifletto sulla possibilità che, nel contesto specifico della comunità di Tag Ao, possano essere proprio le donne le persone con le migliori risorse per attuare una promozione della cultura. Nel villaggio le differenze tra generi si riflettono nelle attività quotidiane, gli uomini lavorano fuori paese oppure sono spesso impegnati nei campi. Le donne potrebbero forse essere coloro che hanno le possibilità e le abilità per proporre strategie per promuovere l’identità culturale della comunità.

Al tempo in cui scrivo, Melodina ha dato alla luce il suo terzo figlio. Mi chiedo come possa essere la sua infanzia, la sua giovinezza, se una promozione culturale nella comunità possa giovare al suo benessere psicologico ed emotivo. Mi auguro, ad ogni modo, che possa aver accesso agli strumenti necessari e alle opportunità migliori per essere in grado di riflettere, in modo felice, consapevole e risoluto, sulla sua complessa e sfaccettata identità, su ciò che la cultura ha significato in passato, su cosa possa essere prezioso mantenere nel presente e su come farlo.

[1] Dossier con Dati e Testimonianze, numero 40, Agosto 2018, Caritas Italiana, Indigeni, diritti, cura del creato https://archivio.caritas.it/pls/caritasitaliana/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=7792

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