Corpi Civili di Pace Ecuador

Naufragare Controcorrente

Riflessioni tra motivazione, identità e confronto con la realtà

Scritto da Rosaria Giorgio, Corpo Civile di Pace in servizio con Focsiv a Quito

“Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini, ma sempre incontrando noi stessi” (James Joyce, Ulisse)

Dopo quasi più di otto mesi ricoprendo il mio ruolo, ancora incerto, come Corpo Civile di Pace ad HIAS in Ecuador, la mia riflessione si concentrerà nel dare una risposta, o quasi, a una domanda, che rimbomba ultimamente nella mia testa, sulla relazione tra i volontari e l’organizzazione locale.

Ciò che mi ha spinto ad iniziare questo lungo viaggio di volontariato è stata la motivazione, la passione, il desiderio insaziabile, il fascino per l’ignoto e la curiosità; un connubio perfetto tra le mie qualità razionali di auto-costruzione e auto-divenire che mi guidano a orientarmi verso obiettivi individuali; e dall’altro lato passioni, impulsi e irrazionalità che mi spingono ad azioni non pensate ma degne di nota.

La passione, il comportamento folle e motivato, il viaggio esistenzialistico e intrinseco, metaforicamente presenti e insinuati nell’essere volontario, possono trovar spazio nel mondo della cooperazione?  Possono dopo otto mesi continuare a bruciare lentamente sul volto e nelle azioni di un volontario coinvolto in un progetto di cooperazione?

L’impegno e la dedizione dei volontari, compresa la mia, ad appoggiare ed essere parti di un gigantesco puzzle, nascono innanzitutto dalla spinta motivazionale, dalla razionalità, dai valori, dalle credenze e dalla passione, folle e egoista, di sentirsi utili e al servizio dell’altro. Per far ció, per raggiungere la meta, é importante stabilire un profondo legame basato sulla relazione di reciproca fiducia e supporto tra volontario e organizzazione, di invio e locale, rispettare le regole, dar spazio alle emozioni, saldare la fiducia in sé stessi e negli altri e, immancabile, la capacità di intraprendere azioni guidate e realistiche in vista di obiettivi volti a soddisfare le proprie e altrui motivazioni (o scopi), per produrre un cambiamento. Tuttavia, le premesse motivazionali sono i punti di partenza del viaggio, la meta finale rimane incerta e il mentre ricco di ambivalenze, pensieri e spesso un tunnel senza uscita.

Mi piacerebbe paragonare il volontariato e i volontari, ed io stessa, al viaggio di Ulisse e ai mille inganni e ai mille volti dell’eroe omerico. Ognuno di noi parte o salpa con speranza e tanta motivazione: chi alla scoperta della propria identità, chi per ragioni economiche, chi per dare una svolta alla propria vita, chi per rispondere a tanti interrogativi, chi per conoscere la diversità, chi per crescere e riscoprirsi, chi per alimentare la curiosità e la conoscenza, chi per trovare nell’altro la ragione dell’essere. Non importa esattamente il perché; l’importante è la motivazione, razionale e folle, nel farlo.
Ogni volontario-viaggiatore porta con sé le radici culturali d’origine, il primo strumento identificativo che necessariamente deve ridefinire per non atrofizzarsi nei propri stereotipi di identità, e per poter compiere un cammino di crescita, attraverso il chiedersi e il chiedere; senza però dimenticarsi della propria esistenza culturale e delle proprie radici. Anche Ulisse, avventuroso e motivato, intraprende il suo viaggio di ritorno alla sua terra non consapevole dell’incertezza, delle tentazioni e degli ostacoli che incontrerà durante il suo viaggio, mosso dal desiderio di confronto, conoscenza, dalla crisi interiore e dall’insaziabile curiosità, senza mai dimenticarsi della sua Penelope, della sua casa Itaca e dell’amore per Telemaco.

Noi volontari arriviamo con aspettative e idee nella nostra nuova terra, a volte casa, alla scoperta di ciò che ci attenderà per un anno, lungo e irripetibile, con la curiosità di conoscere e di sperimentarci in un nuovo contesto locale organizzativo. L’organizzazione locale diventa, quindi, il porto dove ormeggiare l’ancora, l’isola di Ogigia, nella quale spesso abitano tante belle ninfe Calipso pronte ad innamorarsi dell’europeo venuto dall’altro lato del mondo, l’europeo dai mille racconti accademici e portatore di innovazione. L’organizzazione locale diviene il teatro dove inscenare il copione scritto e nel quale gli attori sono i volontari. Primo passo per entrare nel vivo della scena é conoscersi e cercare per quanto possibile, superando quegli ostacoli culturali, istituzionali e formali, di instaurare una relazione interpersonale di reciproca fiducia, fissare degli obiettivi comuni, motivare e motivarsi alla realizzazione di mete finali condivise.

Cosa succede quando ciò non accade? Cosa succede quando durante il viaggio il canto melodioso delle meravigliose Sirene é in realtà ammagliante e tentatore di inganni? Accade che prende sopravvento la demotivazione, la delusione, l’angoscia, la collusione, il disagio e si entra in un vortice di dinamiche ambivalenti e dalla doppia faccia.

Con occhio attento al contesto nel quale sono immersa ho cercato di cogliere quelle dinamiche organizzative, addentrandomi all’interno dei fatti e della vita vera e propria dell’organizzazione, senza soffermarmi all’apparenza, dove nel profondo delle trame e delle azioni si celano comportamenti “patogeni”, che mi hanno dato opportunità di rilevare, quelli che per me sono i principali punti deboli dell’organizzazione, e indirettamente tasti dolenti di molte organizzazioni impiegate nel mondo della cooperazione: un quasi assente pensiero interculturale, l’incapacità di coltivare una sorta di “apprendistato emozionale” e la capacità di generare un “contagio emotivo”. In questi contesti, in particolare nel mio personale contesto lavorativo, per far fronte all’agente patogeno che rischierebbe di penetrare nella “pelle psichica”, è necessario diventare attori, indossando maschere, coprire con trucchi e veli l’identità, scomponendo infinitamente la personalità, che da unica e irripetibile diventa, utilizzando il linguaggio pirandelliano, una, nessuna e centomila. Il tutto per entrare nelle trame del copione scritto da chi, in realtà, è cieco, analfabeta di emozioni.

L’altro sé, lo sdoppiamento della personalità, l’essere ciò che non si é, rappresenta pertanto un nuovo copione che i volontari-attori recitano, dettato dalla necessità di adattamento al contesto inaspettato. La riscrittura del copione da recitare diventa quel processo, tramite il quale, attraverso il linguaggio, delusi dagli avvenimenti, si tenta, nonostante tutto, di dare un senso al circostante e di interpretare i significati degli eventi sfortunati. La trama della storia, specie se raccontata a parenti o amici lontani, assume un’altra direzione, volta a oscurare aspetti o eventi oggettivi che risulterebbero in conflitto con il mondo fiabesco costruito dalle percezioni e aspettative soggettive che si speravano, soprattutto prima di partire.

Naufraghi nel nostro stesso mondo interiore, naufraghi in una tempesta di pensieri e punti interrogativi che tormentano. Naufraghi per dieci anni che in realtà sono mesi. A questo punto, le deviazioni che i naufraghi da soli imboccano nel tentativo di procedere, possono condurre a delle scelte: accontentasi o porsi domande esistenziali sull’ambiente circostante.

Accontentarsi significa sacrificare le proprie credenze, valori e aspirazioni: assumere le abilità di Ulisse, tanto lodate da Sofocle, come il manipolatore degli eventi, emblematico, astuto e ingegnoso. Oppure porsi domande, ovvero riflettere sulla perdita del desiderio e delle motivazioni che hanno guidato inizialmente il viaggio: diventare come l’Ulisse di Foscolo, l’uomo appassionato e emozionato, smarrito, incerto e alla continua ricerca di un ancoraggio sicuro per poter trovare risposte alla sua crisi interiore, mostrando allo stesso tempo il coraggio di affrontare gli ostacoli. Ed io assumo il carattere esistenzialistico dell’Ulisse di Foscolo. Allora, quel viaggio intrapreso diventa quasi una finzione, come la storia di Ulisse, frutto dell’immaginazione di Omero, viaggio fiabesco e avventuroso, in realtà privo di una realtà, ma ancorato a una logica umana di celebrazioni di stati d’animo e sentimenti benevoli piuttosto che da logiche di potere e gerarchia. Molte sono le organizzazioni locali nei contesti umanitari, come ad esempio la mia, che mancano di quella fondamentale funzione materna che nella terminologia di Bion è denominata revêrie, e consiste appunto nel contenimento delle angosce, o semplicemente della fragilità umana dei volontari. Purtroppo, da ció che ho ben notato, molte delle attuali realtà organizzative agiscono in base alla logica dell’analfabeta emotivo. Le organizzazioni sembrerebbero apparentemente globali e unite, ma nella realtà dimostrano di essere segmentate, frammentate e parcellizzate: adottano la divisione del lavoro emotivo.

Tra pochi mesi il naufragio sarà finito, i dubbi saranno aumentati, le risposte dimezzate, molti i Ciclopi da ingannare, Nessuno da non nominare. Quello che ne rimarrà sarà la memoria di quelle avventure, a volte nella tempesta, a volte nell’indifferenza mostrata da chi si é professato un porto sicuro, dalle parole non dette ma che valeva la pena dire.

Chissà se queste mie righe saranno interpretate come un atto di ribellione, come una critica; oppure lette e rilette per tentare di comprendere la delusione e cercare di risanare ciò che é stato tristemente contagiato dall’indifferenza dello scarso pensiero e dall’atteggiamento apatico. Il mio destino sarà: o bruciare nell’Inferno, come l’Ulisse dantesco punito per aver superato i limiti umani e condannato alla tribolazione dei limiti imposti da Dio alla conoscenza umana; oppure essere lodata e apprezzata, come il poetico e mortale Ulisse di Kavafis, per quelle qualità umane di esagerata riflessione e consapevolezza sui propri errori e quelli degli altri, e per aver tentato di incontrare la via d’uscita al disperato naufragio, attraverso se stesso e i suoi valori.

Mi chiedo se esiste un antidoto contro lo smarrimento, la mancanza di sicurezza, l’apatia e al citato contagio emotivo, tipico di molte organizzazioni umanitarie.  L’antidoto esiste. È dentro di me. Perché nonostante le incertezze, non sono stata soffocata dal panico del contagio emotivo, nonostante ne abbia mostrato i sintomi, non sono stata influenzata dalla mancanza di empatia e sincerità, verso me stessa e verso gli altri.
In fondo, resto e spero resterò, durante questo mio viaggio, un “pezzo di pane” di Altamura.

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