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Caschi Bianchi Filippine

Contro mulini a vento

Appunti sulla mobilità sociale a Tamulalod

Scritto da Elisa Alossa, Casco Bianco in servizio civile con Caritas Italiana a New Guia

La Repubblica delle Filippine è un Paese che guarda sempre verso l’alto, anche quando le circostanze ce la mettono tutta per fargli piegare la testa.

Le sfide che il popolo filippino affronta sono molte, ma non sempre immediatamente visibili. Malgrado sia uno dei paesi più colpiti dagli effetti della crisi climatica – e relativi disastri naturali – il suo status economico continua a fare dei notevoli passi in avanti: nel 2016, ad esempio, il Prodotto Interno Lordo ha avuto un brusco aumento del 06.8%. Sono numeri che impressionano lo sguardo internazionale, ma significano molto poco per la maggior parte dei filippini. Oltre il 20% della popolazione totale si trova ancora sotto la soglia di povertà assoluta, che qui significa vivere con meno di 1 euro al giorno.

Dall’esterno, si tende a esprimere perplessità di fronte a casi di questo genere. Eppure, si tratta di un meccanismo che si ripete in quasi tutte le parti del mondo: le risorse di un territorio vengono utilizzate, sfruttate addirittura, fino all’osso; ma la ricchezza che se ne ricava si concentra nelle mani di pochi. Come un serpente che si morde la coda, più la crescita è vertiginosa, meno le categorie più basse della società possono goderne. Mentre i ricchi risalgono la scala socioeconomica tre gradini alla volta, i poveri rimangono impantanati sul fondo.

Attraverso una lente meritocratica, questo divario si potrebbe attribuire a una mancanza di impegno e capacità da parte delle classi più basse. Si tratta di una visione antiquata, ma sfortunatamente ancora piuttosto in auge: l’immagine del povero pigro o privo di talento, che merita il suo stato di indigenza. La realtà è, ovviamente, molto diversa e molto più complicata. Gli elementi che impediscono la scalata socioeconomica di intere classi sociali hanno poco a che fare con caratteristiche individuali, e molto a che fare con meccanismi esterni su cui e’ impossibile, per chi li subisce, esercitare alcun tipo di controllo.

Per cercare di comprendere meglio alcuni di questi meccanismi, e come essi operino nella vita quotidiana del popolo filippino, ci siamo recate a Tamulalod, un piccolo barangay (villaggio) sotto la municipalità di Dumarao, in provincia di Capiz. Qui abbiamo incontrato Leonardo, Jusan, Consolacion e Amalia, che ci hanno raccontato di come le loro aspirazioni di gioventù si siano misurate contro la realtà.

Leonardo ha 39 anni. È il più timido del gruppo, ma le sue tre concittadine lo convincono a parlare per primo. Non ha ancora una famiglia propria (ci fa presente con leggerezza di essere in cerca di una fidanzata), ma la sua vita non è priva di responsabilità: si prende cura, infatti, della madre anziana, la cui salute è in rapido deterioramento. Lavorano ancora entrambi, perché uno solo dei loro salari non basta a mantenere due persone.

“Siamo contadini. Principalmente lavoriamo a contratto in fattorie di terzi,” ci spiega. “Abbiamo anche noi il nostro quadrato di terra, ma coltivarlo e mettersi in proprio è troppo rischioso. Bisogna investire una grande quantità di capitale per iniziare, ma non c’è mai la garanzia che questo capitale torni indietro. E poi, ogni anno c’è il rischio che arrivi un tifone a spazzare via tutto, come è successo alle piantagioni di caffè qui a Tamulalod nell’85. Lo sapevate che da allora in questo barangay non si è più prodotto un singolo chicco di caffè?”

Leonardo è nato qui, da una famiglia contadina che ricorda molto bene i danni inflitti dal tifone Irma nel 1985 e dai tifoni che gli sono succeduti; rimanere a Tamulalod, però, non è mai stato parte dei suoi piani. Dopo aver finito la scuola superiore, si è immediatamente trasferito a Manila in cerca di maggiore sicurezza economica.

“Il mio sogno era diventare insegnante e continuare a vivere in città. Così facendo, avrei anche potuto aiutare la mia famiglia a distanza. Il percorso di studi per insegnare, però, dura quattro anni, e io non avevo la disponibilità economica per studiare tanto a lungo. Alla fine ho scelto informatica, che di anni ne dura soltanto due.”

La sua carriera a Manila è finita prima ancora di iniziare. “Subito dopo la laurea mi sono ammalato di tifo e sono stato costretto a tornare a casa. Non potendo lavorare, era impossibile continuare a vivere in città. Fra alti e bassi, sono stato ammalato per un anno intero: vi lascio immaginare a quanto siano ammontate le spese sanitarie. Non ci siamo mai veramente ripresi da quel periodo.”

Dopo Leonardo, si racconta Consolacion, che ha 62 anni e ben 9 figli, quasi tutti grandi abbastanza da avere figli a loro volta. Consolacion è proprietaria di un piccolo appezzamento di terra, che lavora con l’aiuto di alcuni nipoti. A differenza di Leonardo, non è laureata; tuttavia, è arrivata molto vicino all’ottenere ben due lauree, in infermieristica e in psicologia.

“Infermieristica l’ho studiata a Roxas City, ma ho dovuto interrompere gli studi poco prima della laurea perché mi sono sposata e sono rimasta incinta. Dopo aver partorito ho provato a riprendere, questa volta psicologia, a Iloilo. Quando mi sono resa conto di aspettare il secondo figlio non sono proprio più riuscita a continuare.”

Per Consolacion, gli studi medici rappresentavano un’opportunità non soltanto di avanzare il proprio status socio-economico, ma anche di costruirsi una carriera che le permettesse di aiutare il prossimo. Non ha abbandonato questo proposito e ancora oggi opera come assistente ostetrica volontaria in tutto il barangay, offrendo consulenze gratuite nel corso della gestazione alle future madri di Tamulalod.

“Sono brava in quello che faccio,” afferma con fierezza. “Ovviamente ha ben poco a che fare con il mestiere dell’ostetrica vera. Quello non si può proprio fare senza un titolo di studio.”

E’ il turno di Amalia, che ha 51 anni ed è la proprietaria del sari-sari store in cui siamo seduti. “Sari-sari” è l’aggettivo che qualifica i piccoli negozi di quartiere filippini, dove si può trovare un po’ di tutto: dal caffè solubile al dentifricio. Il suo è arredato con cura e dotato di due panchine su cui sedersi per consumare bevande o snacks. Sono molti anni che Amalia porta avanti la sua attività, ma non ha molta voglia di parlare del negozio: preferisce raccontarci di come ha incontrato suo marito al liceo e della loro lunga, felicissima vita di coppia.

“In realtà, dopo la scuola siamo stati separati per un po’, perché io sono andata all’università a Manila. Ho avuto a malapena il tempo di iniziarla: dopo qualche mese è arrivato un tifone. Mi sono trovata in strada in un momento in cui i venti erano particolarmente forti, tanto forti da farmi cadere e trascinarmi via. Le ferite alle gambe che ho subito quel giorno mi hanno impedito di camminare per mesi. Quando sono potuta tornare in aula, ho scoperto che per riprendere la scuola avrei dovuto versare la tassa d’iscrizione per tutti i mesi arretrati in cui non avevo frequentato. Dopo le spese mediche, non ce l’avrei mai fatta a saldare il debito che stavo accumulando con l’università, quindi ho lasciato. Per un po’ ho lavorato in un fast-food, poi ho deciso di tornare a casa dalla mia famiglia.”

Jusan, 58 anni, parla per ultima. La sua storia segue una parabola un po’ diversa da quella degli altri: innanzi tutto, è l’unica fra i presenti a non essere originaria di Capiz. Si è trasferita qui più di trentanni fa dall’isola di Negros Occidental per prendersi cura di una zia malata, ed è rimasta dopo aver conosciuto quello che sarebbe diventato suo marito. Anche lei, oggi, è tornata a Tamulalod a lavorare la terra dopo aver battuto strade lontane, ma la sua storia è più “di successo” rispetto a quelle degli altri: un successo il cui fattore determinante è stata la scelta di lasciare, seppur temporaneamente, le Filippine.

“Anche io volevo fare l’insegnante. È un lavoro che da sicurezza economica e stabilità, ma passare l’esame d’accesso è difficilissimo! Quindi alla fine ho scelto di studiare scienze forestali. Dopo la laurea ho fatto domanda per lavorare in comune a Roxas City. Ho subito iniziato a collaborare con il project manager assegnato all’area di Mount Tag-ao (una delle montagne che fanno parte di Tamulalod, N.d.A). Sono rimasta nello stesso ufficio per dieci anni, nel corso dei quali ho partecipato al monitoraggio di tutti i progetti forestali a Capiz. A quel punto, però, il budget era esaurito e ci hanno lasciati tutti a casa.”

E’ stato allora che Jusan ha fatto domanda per lavorare a Singapore. Lì, la sua laurea in scienze forestali e la sua lunga esperienza lavorativa non hanno contato nulla, e per più di 17 anni Jusan ha potuto lavorare soltanto come domestica. Le sue entrate, però, si sono moltiplicate a dismisura, permettendo alla sua famiglia di vivere in modo molto più confortevole e a tutti i suoi quattro figli di frequentare l’università.

“Ora che sono tornata, quello che guadagno coltivando la terra è infinitesimale rispetto al mio vecchio salario a Singapore. Però, qui c’è mio marito, ci sono i miei figli. Nel periodo in cui ho lavorato all’estero, sono dovuti crescere senza di me.”

Ascoltando queste storie una dopo l’altra, non è difficile coglierne i parallelismi e le connessioni. A prima vista, possono sembrare tentativi ascensione sociale a cui è stata sbarrata la strada dalla sfortuna. Ma è veramente così?

Leonardo, Consolacion, Amalia e Jusan non si considerano sfortunati. Raccontano dei loro obiettivi mai realizzati con serenità e ottimismo, descrivendosi come “blessed”, benedetti, per aver schivato pallottole molto peggiori: “non mi sono arricchito, ma almeno non sono morto di fame. Sono stato male, ma almeno sono guarito. Non ho finito gli studi, ma almeno li ho iniziati e ho imparato qualcosa. Non ho realizzato i miei sogni, ma forse riuscirò a realizzare quelli dei miei figli”.

Non è la sfortuna a creare immobilità sociale, ma la vulnerabilità; non le disgrazie, ma le possibilità e risorse che ci vengono messe a disposizione per farvi fronte.

La mancanza di un sostegno adeguato (istituzionale e culturale) alle madri che lavorano, e ancora di più a quelle che studiano, fa sì che un evento felice come una gravidanza possa distruggere una carriera. Un sistema sanitario pubblico a pagamento fa sì che subire malattie o infortuni comporti indebitarsi per anni (almeno fino a pochi mesi fa: con la Universal Health Care (UHC) Bill firmata dal Presidente Rodrigo Duterte a febbraio, tutti i cittadini filippini saranno automaticamente tutelati da un’assicurazione sanitaria nazionale, anche se resta da vedere come questa legge verrà applicate in pratica ).Un sistema di istruzione la cui qualità e accessibilità non vengono curate appropriatamente crea molti laureati mancati; senza parlare di tutti coloro che la laurea la ottengono, ma non ne traggono alcun beneficio (nelle Filippine, la percentuale di laureati nella popolazione disoccupata supera il 40%).

Aspirare a una vita migliore nelle Filippine può apparire come una lotta contro dei mulini a vento don-chisciottiani. Uno sforzo a vuoto, che acquista potenziale solo quando si è disposti a sacrificare qualcosa di grande, come veder crescere i propri figli.

È un determinismo a cui il popolo filippino, con la sua leggendaria resilienza, non è disposto a soccombere. All’inizio del 2019, quando sono arrivata in questo Paese, mi sono subito riempita di ammirazione per la forza dimostrata dai contadini, gli allevatori, i piccoli imprenditori e i tuttofare improvvisati – ma pieni di risorse – che lo popolano.

Il coraggio della working class filippina, però, non deve essere una scusa per lasciarla da sola. È essenziale che vengano messe in atto delle azioni concrete per ridurre la vulnerabilità che la tiene incatenata a terra: solo così potrà sollevare, oltre al capo, anche i piedi, e iniziare la sua scalata verso una vita migliore.

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