• P.A.R.I. Punto di Accoglienza per Rifugiati ed Immigrati di Dakar - Senegal

Caschi Bianchi Senegal

“Rifugiarsi” a Dakar

“Il Senegal è come un amico che ti invita a casa sua, ti dice, entra pure perché qui è sicuro, ma resta in piedi, non ti fa sedere”.
La realtà di accoglienza del P.A.R.I di Dakar, dove ogni giorno si cerca di dare ascolto a sostegno alle tante persone che scappano dal loro paese alla ricerca di un futuro migliore.

Scritto da Francesca Conti e Federica Zilio, Caschi Bianchi in servizio civile con Caritas Italiana a Dakar

Sono ormai 8 mesi che svolgiamo il nostro Servizio Civile al P.A.R.I., il Punto di Accoglienza per Rifugiati e Immigrati gestito dalla Caritas a Dakar. Il P.A.R.I. non è un punto di accoglienza come potrebbe essere comunemente inteso in Italia, ma rispecchia di più le caratteristiche di un centro di ascolto: è infatti intorno all’ascolto che orbitano tutti gli interventi messi in atto dall’équipe di lavoro.

Il primo vero obiettivo qui è proprio quello di dare voce a chi per lungo tempo non ne ha avuta, a chi si barcamena quotidianamente in situazioni di difficile sopportazione per trovare un po’ di pace, di tregua.

A Dakar non esiste una rete di servizi dedicati all’accoglienza di migranti, richiedenti asilo o rifugiati. C’è qualche associazione che accoglie temporaneamente donne con bambini, qualche parrocchia che mette a disposizione degli spazi, qualche comunità che cerca di aprire le proprie porte e basta. Da un punto di vista legislativo, invece, a Dakar sono presenti le sedi di tutte le più grandi e importanti Organizzazioni atte al riconoscimento dello status di rifugiato: qui non è in corso nessuna battaglia politica contro i richiedenti asilo, quindi spesso lo status di rifugiato viene riconosciuto, ma il riconoscimento finisce lì.

Al P.A.R.I. di storie ne abbiamo sentite tante ed è proprio grazie a queste storie che in un qualche modo si può avere una visione completa di quello che sta succedendo nelle nostre società, Africa o Europa non cambia: la visione completa su come il nostro sistema impone l’approccio verso il prossimo.

Da una parte cerchiamo di assistere migranti che ancora non hanno titoli di soggiorno specifici, loro sono come gli ultimi, quelli che non hanno ancora un documento in mano che attesti il loro diritto ad essere aiutato poiché in fuga da un paese in guerra o da un pericolo che mette a rischio la propria vita o la propria incolumità; dall’altra i rifugiati, invece, coloro che sono già in possesso del documento che attesta la pericolosità della situazione dalla quale stanno scappando e quindi la necessità di ricevere un aiuto.

È proprio parlando con quest’ultimi che ci siamo accorte dell’assurdità e dei paradossi sempre presenti se lavori nell’ambito migratorio, anche se ti sposti in altre zone del mondo. I rifugiati che vengono al P.A.R.I. a chiedere aiuto vengono indirizzati verso le organizzazioni internazionali che hanno sede a Dakar e verso i centri di servizio sociale della città, in modo che possano essere seguiti da loro. Quello che emerge, però, è che i rifugiati a Dakar sono abbandonati a loro stessi. In questo modo si sono creati, in alcuni spazi di Dakar, dei centri di insediamento informali dove i rifugiati dormono all’aperto, senza la possibilità di utilizzare un bagno e dovendo perennemente stare attenti ai rastrellamenti della polizia. Parlando con un rifugiato ci è stato detto: “il Senegal è come un amico che ti invita a casa sua, ti dice, entra pure perché qui è sicuro, ma resta in piedi, non ti fa sedere”. Questa è la percezione che hanno i rifugiati in Senegal. Lo stesso Senegal che è comunemente noto come il Paese della Teranga, dell’accoglienza, ed è vero: ma ancora una volta si vede qui, come altrove, la differenza tra l’accoglienza fatta dalle persone, dai singoli individui sempre disposti a condividere anche il niente che hanno, e l’accoglienza fatta dalle Istituzioni e chi con loro.

Particolarmente significativa è stata l’esperienza vissuta da una famiglia congolese: sono stati obbligati a fuggire dal Congo in quanto il padre della famiglia era implicato nella politica del Paese; aveva avuto dei problemi e la sua vita e quella dei suoi familiari era in pericolo. Per questo decidono di emigrare in Ciad, dove, però, i quattro figli hanno avuto seri problemi di integrazione a causa del razzismo dilagante nel Paese. Per questo, dopo quattro anni, la famiglia decide di emigrare nuovamente per raggiungere il Senegal, Dakar in particolare. Nonostante siano stati riconosciuti rifugiati politici in Ciad, una volta giunti nella capitale senegalese si sono ritrovati a dormire per strada. Un padre, una madre e quattro figli (la più piccola di otto anni) senza un riparo, senza risorse ma con un solo punto di riferimento a cui aggrapparsi: la Caritas di Dakar. Considerata la situazione di vulnerabilità estrema del nucleo famigliare, il P.A.R.I. li ha accolti nel proprio cortile dove hanno dormito per quasi due mesi all’interno di un’automobile. I bambini trascorrevano le giornate giocando con ciò che il giardino offriva e con ciò che la loro fantasia era in grado di trasformare: così i rami caduti dagli alberi sono diventati spade, grandi sassi sono diventati tavoli da disegno e l’automobile un castello. Il loro unico diritto riconosciuto? Quello di non poter rientrare nel loro Paese d’Origine. Tutto il resto è come se fosse un dettaglio accessorio.

Poi c’è chi si chiede perché arrivano tutti questi migranti in Europa, perché non rimangano nel loro paese o perché non si spostino in un paese africano più vicino al loro. Perché in fondo noi mica li possiamo aiutare tutti. Vale la pena ricordare che quelli che “non possiamo aiutare tutti” sono famiglie che scappano dalla guerra, dal proprio paese perché rischiano la vita, cercano di costruirsi un avvenire migliore in altri Paesi ma questo gli risulta impossibile perché quei Paesi che gli hanno rubato il passato e il presente, gli vogliono rubare anche il futuro. Ci sono genitori che non riescono ad assicurare un letto e un pasto al giorno ai loro figli. E poi ci siamo noi che metà del cibo che compriamo lo buttiamo nella spazzatura.

Ancora una volta in più, quindi, ci chiediamo: cosa vuol dire aiutare le persone a casa loro? Cosa intende questo Mondo con la parola “aiutare”? La risposta continuiamo a trovarla solo nei piccoli gesti, con la speranza che ogni piccolo passo formi un cammino verso un Mondo più umano.

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