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Corpi Civili di Pace Kosovo

Se io dico Kosovo, tu a cosa pensi?

Quando un anno fa ho deciso di unirmi ai Corpi Civili di Pace e partire con Caritas Italiana, a sentir parlare di Kosovo –la destinazione prescelta –le immagini della mia mente si tingevano di grigio, affiorava il ricordo di profughi in fuga da una guerra vicina e, nelle orecchie, risuonavano le note di una canzone di Lucio Dalla.

Scritto da Silvia Compagno, Corpo Civile di Pace con Caritas Italiana

Il Kosovo è un fazzoletto di terra delle dimensioni dell’Abruzzo, incastonato tra il Montenegro, l’Albania, la Macedonia e la Serbia, che ancora ne rivendica la sovranità. A vent’anni dal conflitto che ne ha segnato la storia recente e a dieci dalla dichiarazione di indipendenza, quelle evocazioni non sembrano poi così lontane dalla realtà. Intrappolato nel suo passato, tra una classe politica corrotta, una povertà dilagante e l’irrisolta questione internazionale di chi ancora non ne riconosce la statualità, questo paese festeggia dieci anni di esistenza senza grandi entusiasmi.

In questi giorni le strade si sono tinte di blu, il colore della bandiera kosovara, a sostituire per l’occasione il rosso fiammante della FlamuriKombëtar, l’onnipresente bandiera nazionale albanese con lo stemma di un’aquila nera. Nelnord del paese, invece, sventolano imperterrite quelle della comunità serba, che di certo in questi giorni non ha nulla da festeggiare.
Il Kosovo è oggi un paese diviso, sia nel sistema di istituzioni che ne governano il territorio, sia a livello sociale, laddove le principali comunità che vi abitano, quella albanese e serba, continuano a vivere separate l’una dall’altra. Secondo la Costituzione serba così come anche per molti serbi kosovari che vivono nel nord, il Kosovo è ancora considerato una regione della stessa Serbia.

Tutta la penisola balcanica è stata abitata per secoli da una mescolanza di etnie, da sempre vissute ognuna accanto all’altra. Oggi invece la retorica nazionalista di entrambe le parti persuade le nuove generazioni alla diffidenza nei confronti dell’altro, alla sfiducia, alla paura e al pregiudizio. Se prima della guerra tutti sapevano parlare correntemente il serbo e l’albanese, oggi i giovani conoscono solo la propria lingua di appartenenza. Stupisce ascoltare chi, pur vivendo nella stessa città ma in settori diversi, è costretto a comunicare in una lingua veicolare, l’inglese.
I giovani, indistintamente,si sentono imprigionati in un paese che non offre opportunità. “Incapsulati” in un sistema che soffoca il pensiero libero, che non educa all’immaginazione e che per questo li tiene incollati ad un passato che non hanno voluto.

Eppure, alcuni di loro, pittori, attori, giornalisti, musicisti provano a ricolorare una terra da tutti dipinta di grigio. A ricostruire ponti attraverso l’arte, a sognare e a festeggiare ogni volta che si può. A raccontare il paese nel segno della verità, a smascherare la propaganda e a lottare per voltare pagina. In fondo poi le cose in comune sono forse più di quelle che dividono, a partire dalla grande gentilezza ed ospitalità delle persone, il calore con il quale ti senti accolto come fossi a casa tua; la voglia di confrontarsi, di raccontarsi e di conoscere; il valore della famiglia e delle tradizioni, la spiritualità a tratti folkloristica di cui però tutti sono orgogliosi; la cucina che lega i Balcani nell’eredità culinaria ottomana.

È dunque necessario ripartire da ciò che può unire e far riconoscere simili. In un paese tra i più giovani al mondo per età media, è fondamentale aiutare le nuove generazioni a rendersi protagoniste del cambiamento. Il ruolo della società civile internazionale e quindi di volontari come noi dovrebbe essere quello di supportare i giovani in questo processo, ampliare i loro orizzonti, aiutarli a sognare e a capire che, indipendentemente dall’etnia o dalla religione, condividiamo tutti lo stesso pezzo di mondo e un certo modo di guardare al futuro. Sostenerli in un percorso di costruzione della memoria, talmente fallace e parziale che alcuni di loro non sono neanche in grado di identificare chi sia davvero il “nemico”contro cui si è combattuto. Arrivare ad una narrativa comune e condivisa è un processo lento, che richiede pazienza e dedizione. Il nostro intervento, lo sguardo e l’interpretazione di chi viene da fuori potrebbero però aiutare a superare certe convinzioni imposte dall’alto, assorbite e interiorizzate. L’accompagnamento dei giovani all’incontro con l’altro potrebbe in questo senso favorire la scoperta di spazi e persone fisicamente vicine, fino ad oggi tenute lontane dal pregiudizio.

Il Kosovo è una terra di cui nessuno si cura se non per sottolinearne gli aspetti negativi (la violenza, la corruzione, la mafia e il traffico di droga e di esseri umani, l’estremismo islamico e il fenomeno dei foreign fighters). È importante invece approfondire,tessere relazioni e gettare ponti con il mondo fuori, perché le nostre debolezze si assomigliano e si comprendono meglio cambiando prospettiva, guardando le cose ad una distanza maggiore.

Il Kosovo è ancora un paese a metà, uno Stato in divenire e poco maturo che stenta a darsi e ad accettare delle regole ufficiali. A volte però riesce a funzionare comunque, laddove molto più forte è la solidarietà umana: se hai un problema, tutti si mobilitano affinché tu possa superarlo.
Viene da chiedersi dunque, e molti lo fanno, come sia potuto sprofondare nella guerra? E in fondo, chi l’ha voluta? Ma nessuno sa darsi una risposta: la colpa è di non so di chi.

PrecSucc
CCP Caritas Italiana

21 Marzo 2018/ da Redazione Antenne di Pace

TAG: Volontariato

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