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Caschi Bianchi Uganda

Un mese qui. Non vorrei essere in nessun’altro luogo al mondo

Silvia ci scrive da Moroto, in Uganda, dove sta svolgendo il suo servizio civile. Assieme alle sue prime impressioni ci aiuta a capire meglio il progetto in cui è inserita, dove sta scoprendo le potenzialità dell’ascolto attivo e della risoluzione creativa dei problemi

Scritto da Silvia Orri, Casco Bianco con Africa Mission Cooperazione e Sviluppo federata Focsiv a Moroto

Riunire le idee e provare a creare una riflessione globale su questo caleidoscopio di impressioni, punti di vista, insegnamenti ed interrogativi mi appare inizialmente caotico ma poi, fermandomi un attimo, mi risulta naturale e necessario.
Sto vivendo una realtà che ho cercato di raggiungere da molto tempo; un obiettivo, l’Africa, che definisco come possibile risposta a tante domande ed allo stesso tempo come punto di partenza per ridefinire tante costruzioni mentali che vanno messe in discussione, per seguire un percorso che mi porti a sgretolare l’idea che esista qualcosa di “giusto” o “sbagliato” per definizione, per saper leggere i contesti e le azioni che ne derivano.
È con questa ottica che sto sperimentando queste prime settimane in Uganda, cercando, per quanto impegnativo, di ascoltare senza giudicare, di osservare senza paragonare, di parlare senza filtrare. Il progetto a cui sono stata assegnata mi appare come un’opportunità che possa rendere queste mie riflessioni più profonde, costruttive e condivisibili.

Il contesto in cui si muove lo staff del “Child Protection Project” non riguarda solamente le problematiche infantili nello specifico, ma comprende gli ambienti famigliari e comunitari in cui alcune delicate tematiche si sviluppano e creano disequilibri spesso difficili da sanare.
La violenza contro i minori si diffonde, e spesso è legata, alle iniquità di genere e si traduce spesso in pratiche dannose a livello di salute personale e di contesto sociale, quali le mutilazioni genitali femminili o il matrimonio infantile. Gli obiettivi generali del progetto, finanziato da Unicef, sono quelli, innanzitutto, di concedere un’adeguata conoscenza sul tema della violenza minorile a bambini ed adolescenti dei 7 distretti del Karamoja – regione dell’Uganda in cui il progetto di sviluppa – affinché abbiano le capacità per denunciare gli abusi alle autorità incaricate e gli strumenti per prevenire soprusi ed abbandoni. Conseguentemente, il secondo obiettivo generale è quello di incrementare la consapevolezza di genitori, famiglie e comunità circa i benefici del valorizzare le ragazze adolescenti mettendo così in discussione alcune abitudini sfavorevoli al benessere dell’ambiente in cui tale target vive e puntando su una genitorialità responsabile.

Sono rimasta affascinata dall’approccio con il quale ci si affaccia a tali situazioni. Il perno attorno al quale ci si muove è quello del dialogo, dell’ascolto e della condivisione; nulla viene imposto, nulla viene dato per scontato, si è consapevoli che ogni singolo comportamento derivi da condizioni di cui spesso non si conoscono e nemmeno immaginano le fonti e le ragioni.

Mi sto inserendo, in punta di piedi, in questo mondo di relazioni costruite senza fretta, con la calma di chi agisce grazie ad una visione di lungo termine. Mi è stato possibile soprattutto attraverso la partecipazione ad alcuni “Community Dialogues” avuti luogo a Moroto e dintorni. Si tratta di sessioni di sensibilizzazione all’interno dei villaggi attraverso la costruzione di dibattiti in cui i membri delle comunità espongono le proprie impressioni e problematiche riguardanti le tematiche sorte. Gli argomenti di sensibilizzazione puntano principalmente sulla prevenzione e risposta alla violenza minorile, includendo temi quali le mutilazioni genitali femminili, il matrimonio infantile, il traffico di minori e la giustizia giovanile.

In questi sprazzi di realtà quello che mi è saltato più all’occhio è la schiettezza e la voglia di confronto dei presenti; situazioni difficili e problematiche vengono messi sul tavolo della discussione senza timore o vergogna ed il dialogo prosegue fluido senza imbarazzo. Sono, a mio parere, momenti di vero confronto e riflessione, in cui il fine non è essere costretti a trovare una soluzione, ma piuttosto scavare verso motivazioni e condizioni che portano ad alcuni comportamenti poco utili al benessere dell’ambiente comunitario e di conseguenza dei bambini che lo vivono e ne vengono influenzati.
Tali momenti di dialogo vengono successivamente ripetuti cercando di creare un contesto sempre maggiormente costruttivo, cosciente e critico con il fine di incrementare comportamenti consapevoli e responsabili riguardanti le tematiche della tutela dell’infanzia.

Mi rendo conto quindi di quanto questa esperienza che sto vivendo in Uganda possa diventare un intenso percorso che vada verso l’apprendimento attraverso un ascolto attivo delle situazioni, la risoluzione creativa dei problemi, l’attenzione dei particolari e delle soggettività.

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