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Caschi Bianchi Perù

Chiacchierate con Washo. Storia di una piccola comunità che resiste ad una petrolera

Erica ha svolto il suo servizio civile nell’Ecuador amazzonico di Puerto Francisco de Orellana occupandosi di Diritti e Ambiente. “Ci troviamo in Ecuador orientale, nella regione amazzonica, caratterizzata da un grado di biodiversità tra i più alti al mondo, dalla presenza di numerose comunità indigene, alcune delle quali in isolamento volontario, ultime portatrici di un sapere ancestrale basato sulla cosmovisione – ovvero la comunione inscindibile tra uomo, natura e spiritualità- di comunità di contadini “mestizos” definiti “colonos

Scritto da Erica Valentini, Casco Bianco Focsiv a Puerto Francisco de Orellana

Quest’area è specchio di politiche energetiche controverse incentrate sul petrolio. Le esportazioni dell’oro nero sono responsabili di circa la metà del PIL ecuadoriano, il che pone il paese in una condizione di fortissima dipendenza economica. Nel cantone di Orellana, cornice della storia che sto per raccontare, se ne estrae circa il 30%. Com’è facile immaginare le oscillazioni del prezzo del greggio fanno il bello e il cattivo tempo dell’economia della Provincia. In questa epoca il prezzo è basso, la crisi è intensa. Lo scenario si aggrava se pensiamo che si tratta di un’area in cui lo Stato è spesso assente. In un luogo che non può basarsi neanche sull’agricoltura in maniera adeguata a causa di un terreno poco fertile, le petroleras rappresentano, per la gente del posto, una delle poche opportunità di ottenere un salario. Le suddette imprese poi hanno ovviato spesso ad alcune esigenze basiche dei cittadini (strade, infrastrutture, finanziamenti per l’educazione e per la sanità), eppure il prezzo da pagare è enorme: l’alto tasso di contaminazione dovuto anche alle frequenti fuoriuscite di greggio (539 tra il 2000 e il 2010) comporta la diffusione dei casi di cancro (tre volte più frequente che nel resto del paese), molte comunità si vedono costrette ad emigrare dal territorio ormai degradato, sorgono conflitti sociali, progressivamente si distrugge il polmone della terra.

L’ art.57 della Costituzione del 2008 prevede il diritto delle comunità di permettere o rifiutare lo sfruttamento delle risorse sul proprio territorio. In un contesto simile però, quando i più si trovano in balìa della povertà e dell’emarginazione, ha senso parlare di libertà di scelta? Al di là della corruzione, e delle scappatoie legislative per cui le petroleras riescono in ogni caso ad operare, si può dire che praticamente tutte le comunità ne accettano l’ingresso. Quasi tutte! Ci sono poi quelle che questa libertà di scelta la difendono con tutte le forze… dicendo di no. È il caso della comunità di Washington Huilca – Washo per gli amici – contadino, arrivato con la sua famiglia dal sud del paese, nella provincia di Orellana nel 1982 quando era ancora tredicenne. “Quando ci siamo insediati nella foresta, precisamente al km 62 della via Auca, abbiamo trovato una foresta ricca, così tanto da pensare che uno lì aveva tutto”. Washo è anche un tecnico specializzato nel lavoro di campo, della Fundación Alejandro Labaka, che dal 2003 lavora a fianco degli indigeni, nelle loro battaglie e problematiche quotidiane. È proprio in questa sede che l’ho conosciuto, qualche mese fa.

Le chiacchierate con Washo sono sempre interessanti, che ci si trovi davanti a una birra, o in macchina, rincorrendo il serpeggiare degli oleodotti sulla via Auca, la strada principale della zona che costeggia e attraversa ben quattro fiumi. Quest’uomo che da giovane soprannominavano Uarumo, che vuol dire “secco e alto”, faceva parte di una comunità di colonos chiamata Unidos Venceremos. Nel 2009 entrò in scena l’impresa petrolifera BGP, contrattata dalla statale PETROAMAZONAS, che chiese il permesso per entrare ad operare nel territorio. Gli abitanti si riunirono in assemblea e già cominciarono a dividersi. “Non è sempre facile capire il valore della terra che abbiamo a disposizione. Non quando le persone hanno molti bisogni, soprattutto per quel che riguarda la sanità ad esempio. Alcuni di noi però sono arrivati alla conclusione che avranno sempre dei bisogni, ma quello di difendere e vivere la Selva, con tutto quello che ci offre, è comunque più forte”. Furono proprio questi ultimi – parliamo di una trentina di persone- che decisero di formare una nuova comunità, chiamata Atahualpa. Come dice il mio amico “Se gli uomini che ci vivono non si prendono cura della più piccola pianta e del più piccolo insetto della selva, chi mai potrà farlo?”. Continua: “durante la riunione comunitaria di Atahualpa venne stipulato un documento ufficiale tramite il quale rifiutavamo l’ingresso della petrolera. Non fu una decisione facile, ma fu il risultato di uno studio che avevamo fatto sulle altre comunità che vivevano in condizioni negative a causa dell’alto grado di contaminazione. Abbiamo detto di no per salvaguardare l’ambiente, che percepiamo anche come un vero e proprio patrimonio familiare”.

Nonostante questo però l’impresa entrò lo stesso senza autorizzazione per condurre l’esplorazione sismica del territorio. Il gruppo di campesinos reagì sporgendo varie denunce presso diverse istituzioni municipali e provinciali. Di fronte alla provata irregolarità delle proprie operazioni, la BGP fece un passo indietro ed uscì finalmente dal territorio. È stata una piccola vittoria per gli abitanti, sebbene essi siano ancora in attesa delle pubbliche scuse e di una proposta di indennizzo da parte della petrolera. “Se non otterremo quel che ci spetta siamo pronti a rivolgerci alla Corte Interamericana dei diritti umani”. “Come fece la comunità di Sarayaku” dico io. “Esatto” risponde Washo “quello di Sarayaku è un caso famoso in tutto il mondo, e di certo la posta in gioco per loro era molto più alta, dato che l’impresa petrolifera aveva già operato nel loro territorio lasciandolo in uno stato di forte degrado. Noi non abbiamo mica subito i danni che hanno sofferto loro. Eppure crediamo che bisogna andare fino in fondo. È una questione di dignità! Anche noi abbiamo una dignità!”

Nei discorsi di Washo sono ricorrenti parole come “unità”, “organizzazione”, “divisione”. Gli chiedo quali siano le strategie usate dalle petroleras per persuadere un gruppo di comuneros: “Vedi, le imprese ricorrono ai mediatori culturali come figure chiave. Molto spesso cominciano ingaggiando un personaggio molto amichevole e gentile, che cerca di essere amato dalla comunità. Un ragazzo che suona la chitarra, con cui si può scherzare, che appare come un complice. Se il poliziotto buono non funziona allora arriva quello cattivo. Un mediatore più determinato e aggressivo. Con noi e con altre comunità, invece hanno puntato a minare la nostra coesione: hanno creato conflitti interni, spesso addirittura in una stessa famiglia. Ci vuole veramente poco: basta dire in giro che i soggetti più convinti di voler rifiutare l’ingresso di un’impresa, in realtà hanno già stipulato accordi con la petrolera e stanno guadagnando dei soldi per conto proprio”.

“Come avete fatto a rendervi conto di quello che stava accadendo?” domando. “Sai cosa ci è servito molto? Il confronto! Imparare dai casi passati, analizzare cosa stava accadendo e veicolare un messaggio. Radio Sucumbios, dove raccontavamo cosa accadeva, è un canale che ci è stato molto utile per riflettere, crescere e vedere al di là del nostro naso”. Oggi Atahualpa si confronta ancora con le altre comunità, e sebbene alcune volte venga tacciata dagli altri di essere troppo “ecologista e intransigente”, essa si guarda intorno e conclude: “ci chiediamo se le comunas che hanno permesso l’entrata delle imprese petrolifere stiano meglio di noi. Ci rispondiamo che stanno peggio. Per questioni di denaro le persone si trovano spesso a litigare, sorgono molti conflitti. Invece io vedo che siamo pochi, ma ogni volta che dobbiamo celebrare qualcosa ognuno porta il suo cibo e festeggiamo insieme. Ci aiutiamo tra vicini e questo non accade nelle comunità divise. Grazie a questa storia ci siamo rafforzati molto” e ancora “pensando alla contaminazione nelle comunità nei pressi della Via Auca: alcuni non possono più utilizzare l’acqua dei ruscelli perché piena di sostanze chimiche. Atahualpa vive di agricoltura con pochi prodotti e animali, ma non portiamo avanti monocolture. Se non ci si prende cura della terra l’unico futuro che l’aspetta è il deterioramento”.

Di conflitti che un’impresa può generare tra gli abitanti della Selva, Washo ne ha una profonda coscienza considerato anche che proprio la famiglia di suo cognato fu vittima della strage del 2009: non si sa bene se a porla in atto furono i Taromenane o i Tagaeri, comunità indigene non contattate, abitanti delle aree protette del parco amazzonico Yasunì. Queste erano probabilmente infastidite dal rumore incombente dei pozzi della compagnia Petroriental, troppo vicini al territorio che tali gruppi vedevano minacciato, e ne pretesero l’uscita attraverso un’azione violenta. La macabra forma di protesta vide coinvolta una famiglia di colonos che fatalmente passò a 200 metri dalla piattaforma Hormiga 2, nel momento sbagliato. Fu così che le lance colpirono a morte la cognata di Washo, e due dei suoi figli. Il più piccolo, di soli 7 mesi, fu rapito e trovato quattro giorni dopo dentro la cavità di un albero, ancora vivo. “Oggi il bimbo sta bene, ma porta in sé un trauma particolare, tanto che durante il periodo dell’anno che coincide con il suo passato rapimento, spesso se ne va solo nella selva e non si perde mai” mi racconta il mio amico. Questa non è che una delle tante tragedie che derivano dalle tensioni provocate tra popolazioni non contattate e petroleras. Se è vero che lo Stato è il primo responsabile nella risoluzione di tali conflitti, è anche necessario sapere che ogni attore di questo scenario può fare la sua parte. Washo infatti parla spesso dell’importanza dei giovani in questo processo di lotta.

“I giovani hanno avuto un ruolo fondamentale nella nostra battaglia: hanno creato una campagna di resistenza. Hanno messo dei cartelli sulla strada che portava alle nostre comunità che dichiaravano slogan come: La Selva no tiene precio; La Selva no se vende, la Selva se defiende. In seguito abbiamo chiesto ai ragazzi cosa mai potevamo tirar fuori dalla nostra esperienza. Loro hanno risposto: Beh, iniziamo a lavorare insieme! Così abbiamo cominciato a formare un gruppo di giovani agricoltori che si preoccupano dell’educazione, o dei bisogni familiari. Abbiamo formato una Tavola di Giovani della provincia di Orellana, che si è occupata di un progetto volto alla creazione di una piccola impresa di produzione di panela (zucchero grezzo). L’obiettivo era creare un’alternativa economica concreta. È necessario che questi giovani, e quelli che verranno, si rendano conto che per difendersi dal mercato serve un’alternativa. Forse abbiamo posto le basi perché quelli che verranno sapranno come difendersi in futuro, quando la petrolera tornerà a bussare”. Anche per queste sue parole decido di invitare Washo a raccontare l’esperienza di Athualpa, tanto importante quanto sconosciuta, in un gruppo giovanile di nazionalità quichwa. Lui accetta senza titubare perché mi dice che crede tanto nella creatività dei ragazzi. Poco prima di presentarsi si volta verso di me, mi prende il braccio e bisbiglia: “Parla prima tu però, che io mi vergogno!”

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