Caschi Bianchi Zambia

Conversazioni italo-africane

Il sogno di un’Africa nuova nelle conversazioni tra un volontario zambiano, che porta il peso di secoli di soprusi sul suo corpo e sul corpo della sua gente, e una volontaria bianca, in uno sforzo di reciproca comprensione.

Scritto da Claudia Corrado

Il sogno di un’Africa nuova nelle conversazioni tra un volontario zambiano, che porta il peso di secoli di soprusi sul suo corpo e sul corpo della sua gente, e una volontaria bianca, in uno sforzo di reciproca comprensione.

È sbagliato raccontare di qualcuno senza averne almeno condiviso un po’ la vita. La relazione con gli altri è l’elemento imprescindibile del nostro lavoro. Si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, le loro difficoltà. E diventare parte del loro destino.

“Sogno di poter cantare un mondo nuovo, un’Africa nuova. Sì, appartengo allo Zambia e ne vado fiero ma a volte vorrei lasciare questo paese e vivere in uno migliore come il vostro. Qui è tutto più difficile. Voi vedete alla televisione le immagini dei bambini scheletrici con la pancia gonfia, vestiti di stracci e le case fatiscenti. Noi vediamo bambini sani e ben nutriti andare a scuola e giocare, delle belle case dove l’acqua non entra dal tetto quando piove, degli ospedali efficienti dove farsi curare. Forse avete semplicemente i diritti. Chi va a scuola qui, prima impara come non prendere il virus dell’Hiv, poi a leggere e a scrivere. Quando mi chiedi cosa penso di voi, di voi bianchi, ti posso solo dire la mia opinione, questo continente è stato sfregiato per mano degli uomini. Uomini. Che siano stati bianchi, neri, gialli. Erano e sono prima di tutto uomini che non volevano e non vogliono il bene e la pace, ma che continuano a produrre povertà, fame e sofferenza per riempire i loro conti in banca. È inutile puntare il dito contro qualcuno, dobbiamo ricostruirlo insieme questo paese. Per molte persone, quelle che per esempio vi chiamano “Mzungu”, è vero, siete coloro che hanno portato via ogni cosa, quelli che passano nelle enormi automobili dai finestrini oscurati, quelli vestiti bene, quelli che nei villaggi o nelle periferie si vedono ben poco. Questo spesso è derivato dall’ignoranza di un’immagine dell’uomo bianco purtroppo difficile da cancellare, e altre volte c’è ancora del rancore. Altri però credono in voi, in tutto quello che fate per cercare una risposta alla sofferenza. Ricostruendo di nuovo insieme. Qui la gente crede nelle piccole associazioni, nei volontari, nei missionari che si sporcano le mani con loro, che condividono questa realtà. Mi dici che spesso quando incontri lo sguardo di un bambino ti penetra dentro da farti male, come se delle lame pungenti ti tagliassero il corpo, sorrido per la tua affermazione. Continui dicendo: “Sono occhi diversi, occhi violentati dentro un corpo puro. Mi sento in colpa”. Quegli occhi hanno visto la sofferenza, quelle orecchie hanno sentito grida, quelle piccole mani hanno lavorato, quella bocca ha sofferto la sete, quel corpo ha subito violenza. Non sono solo gli occhi dei bambini africani, sono gli occhi di tutti quei bambini nel mondo a cui hanno strappato l’infanzia”

Questo è uno stralcio delle tante chiacchierate che faccio con Jackson all’ufficio dell’Home Based Care, dove presto servizio la mattina, mentre aspetto di uscire con Mama Kalonda per andare nei villaggi a distribuire le medicine. Parliamo molto. Di tanti argomenti. Vive nel compound di Mutende, ha 26 anni e una bellissima fidanzata. “Qui le ragazze spesso cercano uomini con i soldi, che possano garantirle un futuro dignitoso. In particolare quelle che vivono in città. Spesso non li amano, ma sanno che sposandoli potranno avere una bella casa, magari nel quartiere residenziale, e i loro figli potranno andare a scuola. Non gliene faccio una colpa, in fondo cercano solo una vita migliore, molte di loro non hanno terminato gli studi. Anch’io ho questa paura, che un giorno lei possa incontrare un uomo più interessante, più ricco. In Africa a volte l’amore non basta. Bada bene non è una scelta, a volte è l’unica soluzione per sfuggire alla povertà. Sempre meglio che prostituirsi. Anche se questo forse un po’ lo è.”

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