• Cb Apg23, 2007

Caschi Bianchi Romania

Sherê Hûner: il popolo curdo e la battaglia dell’arte

Famiglie divise da una frontiera minata, un genocidio in atto, un servizio di leva che costringe a una lotta fratricida: da ottantaquattro anni i Curdi vivono dispersi in quattro Paesi del medioriente e subiscono violentissimi tentativi di assimilazione. Il racconto di un giovane curdo rifugiato in Romania, che vuole difendere l’identità del suo popolo senza le armi, portando nel mondo i suoni e le danze della sua terra.

Scritto da Marianna Ponticelli

Primo giorno a Timisoara.

Nell’ong Generatie Tanara, che lavora nell’ambito della prevenzione al fenomeno del traffico degli esseri umani, presso la quale presterò servizio civile durante il prossimo anno, lavora Victor, che si occupa del fenomeno dei rifugiati.
Victor mi spiega che in Romania la legislazione in materia concepisce tre tipologie di status che possono essere concessi ad un rifugiato: lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, che permettono ad un richiedente asilo di poter restare in Romania tutta la vita, ed infine la protezione umanitaria temporale,che può durare al massimo due anni.
Nel pomeriggio si presentano in ufficio tre uomini di nazionalità curda, che chiedono di poter ottenere asilo in Romania e che hanno appuntamento con una donna avvocato per discutere della loro condizione.
Riesco a farmi promettere dall’unico dei tre che parla inglese, che risponderà ad alcune domande a fine colloquio.

Il ragazzo che parla con me si chiama Sehmus Bilen, ha ventitrè anni, viene dalla Turchia e da cinque mesi, cioè da quando ha inoltrato la richiesta di asilo politico presso l’ORI, (l’ufficio rumeno migrazioni), vive in Romania. È di nazionalità curda, ma forse sarebbe meglio dire di cultura curda, dal momento che, com’egli stesso mi spiega, con la prima guerra mondiale e la caduta dell’impero ottomano, il Kurdistan è stato diviso tra quattro regioni dell’antica Mesopotamia: Turchia, Iraq, Iran e Siria, in cui oggi i curdi sono dispersi. Ognuna delle quattro regioni perpetra costantemente da ottantaquattro anni tentativi di assimilazione, che il più delle volte i curdi pagano con la vita a causa della resistenza che oppongono ai governi locali. In tal modo Shemus cerca di farmi capire che esiste un popolo con una storia, una cultura, una civiltà, ma non una vera e propria nazione.

Gli altri due ragazzi sono Iraqeni, chiedono anch’essi di poter ottenere lo status di rifugiati; non parlano inglese, ma aspettano con pazienza di capire tramite Sehmus l’esito del colloquio.
Sehmus continua con il suo racconto: i Curdi rappresentano l’unico popolo al mondo a non avere una patria, né una lingua riconosciuta come idioma ufficiale, e aggiunge che, storicamente, il popolo curdo viveva riunito in una stessa terra. Tra la zona curda siriana e quella turca vivono persone appartenenti alla stessa famiglia alle quali non è permesso attraversare il confine e quindi incontrarsi a causa delle mine disseminate ovunque; i Curdi, infatti, sono stati discriminati, deportati, arrestati ed in molti casi condannati a morte o assassinati, durante il corso degli anni da parte del governo Turco.
Nell’ultimo decennio più di 250.000 persone sono state arrestate e torturate per ragioni politiche. Molte delle più efferate torture sono state subite dai Curdi che abitano nella regione sud-orientale della Turchia.
La Turchia parla di democrazia per entrare in Europa, negando però la feroce oppressione che perpetra nei confronti dei curdi, e che non chiama genocidio. Probabilmente perché nessuno in Europa, e nel mondo intero, parla di questo lento quanto latente sterminio che si consuma nel silenzio/assenso degli Stati della Comunità internazionale.

A questo punto chiedo a Shemus se è per questa ragione che navigando in internet, alla ricerca di maggiori informazioni, sono riuscita a trovare siti che parlassero soltanto di oppressione dei Curdi in Turchia e non già di genocidio, riservando questo termine alla più nota e controversa questione degli Armeni. Egli, in tutta risposta mi chiede di potermi mostrare delle immagini che circolano su internet e che documentano la barbarie dell’uccisione e decapitazione di alcune persone di nazionalità curda da parte dei militari del governo Turco.
Sono immagini molto forti, scattate dagli stessi militari turchi, per mostrare al governo e a quella parte del popolo che condivide questa politica, come viene messa in atto la pulizia di un gruppo etnico mai riconosciuto come popolo. (1)
Chiedo, con un pò di coraggio, dell’autenticità di quelle foto, cioè di come egli stesso sia riuscito ad assicurarsi che non siano mero oggetto di propaganda da parte degli stessi indipendentisti curdi. Shemus mi risponde che per un certo periodo se n’è parlato tanto, un po’ ovunque, e Victor aggiunge che nel 1995 le foto sono state oggetto di discussione all’interno del Parlamento Europeo, così ho ragione di credere che siano immagini reali…. Incredibile – penso – è il silenzio che vi gravita intorno e la persistente ostilità a riconoscere che in quella regione del mondo si consumi un tale dramma, poiché, a quanto racconta Shemus, egli stesso, nel tentativo di chiedere asilo in Germania, si è sentito rispondere che in Turchia non sussiste alcun problema tra il governo e la popolazione di origine curda, e che proprio per tale motivo è stato rispedito in “patria”, prima ancora che egli potesse inoltrare alcuna pratica per il riconoscimento dello status di rifugiato.
“Allora perché – esclama – la Germania, così come l’Austria ed altri paesi in Europa o in America, vendono ogni anno un così grande quantitativo di armi al governo Turco?”

Altra cosa che lascia increduli è che in Turchia, il servizio di leva è obbligatorio; il governo, come di norma un po’ ovunque, invia i militari nelle diverse aree del Paese, ed i ragazzi curdi vengono inviati proprio nelle loro zone di appartenenza, dov’è in atto una guerriglia, e dove viene loro chiesto di combattere contro i loro stessi compagni che portano avanti la causa dell’indipendenza del Kurdistan.
E qui Sehmus commenta: “…e poi chiamano noi terroristi!

Il PKK (il partito dei lavoratori curdi che si batte per l’indipendenza) non chiede di avere una patria con dei confini, ma di lasciare che i Curdi vivano insieme agli altri Curdi, e di godere degli stessi diritti degli uomini liberi. È per questo che anch’io ho chiesto lo status di rifugiato, – sottolinea Sehmus, stavolta con maggiore enfasi – perché non voglio combattere con le armi ma con qualcos’altro…sono stato inseguito per due anni in Turchia ed arrestato, perché dovevo combattere contro il PKK. Io stesso condivido gli obiettivi del PKK, ma non l’uso delle armi che il più delle volte caratterizza le loro azioni, io ho scelto un’altra strada,voglio mostrare la cultura curda alle giovani generazioni, devono sapere che da ottantaquattro anni lottiamo contro l’assimilazione.”
Sehmus è un insegnante di balli folkloristici curdi, ed ha studiato al conservatorio diplomandosi in flauto, “Non c’è altro modo- dice – per combattere contro l’imperialismo che con la “Sherê Hûner”, in lingua curda la battaglia dell’arte, ovvero diffondendo la conoscenza della cultura curda attraverso il linguaggio espressivo dell’arte e nel suo caso, in particolare, della danza e della musica.
Portare avanti, quindi, le proprie istanze, quelle della sua gente, dei suoi familiari (alcuni parenti di Shemus sono morti a causa della resistenza contro il governo Turco): questa è la strada che Shemus ha scelto di seguire: sensibilizzare gli altri Paesi, in particolare quelli dell’Europa, circa la causa del popolo curdo. Per questo egli ritiene che l’informazione riguardo la storia, la cultura, le tradizioni, la lingua di questo popolo possano parlare, anzi gridare, il loro desiderio di libertà di identità, in altre parole, di esistenza.

La famiglia di Sehmus vive in Germania, e lui ha tentato di raggiungerla lì; senza documenti però non è possibile varcare il confine rumeno, e in Turchia è impossibile ottenere un documento di riconoscimento che permetta di essere identificato come curdo, per questo ha deciso di rimanere qui e ha chiesto asilo ormai cinque mesi fa.
Ottenere lo status di rifugiato in Romania, vuol dire che da qui egli potrebbe insegnare e lavorare (2) al suo progetto, che consiste nello scrivere programmi per l’insegnamento delle danze folkloristiche da inviare in Paesi come la stessa Germania, o altri Paesi d’Europa dove sono presenti numerose comunità di Curdi.
La situazione dei due amici che lo accompagnano è forse ancora peggiore, mi spiega, perché in Iraq sono sotto il fuoco dei Sunniti e degli Shiiti, che a loro volta lottano tra di loro ed al contempo sono impegnati in una costante oppressione contro i curdi, ragion per cui l’unica via d’uscita è scappare all’estero sperando di ottenere lo status di rifugiato politico.
Infine Sehmus mi mostra una foto che accompagna un’intervista, rilasciata un po’ di tempo prima ad un giornale rumeno, nella quale compare nell’atto di tirare le palpebre degli occhi verso l’esterno, come a voler imitare la fisionomia di un asiatico, e mi dice che se avesse gli occhi di quella forma oppure se non avesse la pelle e i capelli scuri, non sarebbe oggetto di discriminazione e forse sarebbe più facile per lui potersi sentire come un qualsiasi ragazzo che vive in modo libero, nel pieno rispetto dei propri diritti. ”Vorrei poter vivere come vive un qualsiasi ragazzo in Europa – conclude- ma avere un’identità curda e vivere nel mio Paese.”.

Note:

1. Le immagini possono essere visualizzate sul sito:
http://www.kurdistan.org/multimedia/Turkey.html
dov’è possibile trovare anche ulteriori informazioni. Sono immagini molto crude, ed è curioso notare come in un trafiletto sottostante compaia l’autorizzazione del governo tedesco alla pubblicazione delle stesse. Shemus ci spiega che contrariamente a quanto si potrebbe pensare, c’è una parte del popolo tedesco che sostiene la causa degli indipendentisti Curdi.
2. La legislazione rumena in materia, prevede che durante il periodo in cui la richiesta di asilo viene esaminata, il richiedente non abbia la possibilità di procurarsi un lavoro, e riceva, in tal caso, un sussidio da parte dello Stato. Nel caso poi in cui non vi sia stata alcuna decisione da parte delle autorità, nel tempo limite di un anno, all’interessato viene concessa la possibilità di attivarsi per cercare un lavoro.

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