Bolivia Brasile Caschi Bianchi

Lavorare nelle viscere della terra

Da Potosi il cielo sembra più vicino, ma l’argento di cui è ricca si nasconde nelle profondità della terra: un luogo aperto ai turisti che costa però ancora la vita a molti minatori.

Scritto da Jessica Sanna e Federico Tonietto (Caschi Bianchi a Coranel Fabriciano, Minas, Brasile e a Yacuiba, Bolivia)

Potosi è famosa non solo per essere la città più alta del mondo, ma anche per l’argento. La sua storia e il suo splendore, così come le sue tragedie e i suoi orrori, sono tutti inestricabilmente legati a questo metallo prezioso. Potosi fu fondata nel 1545 a seguito della scoperta di minerali grezzi ricchi d’argento sul Cerro Rico. Il 1 aprile dello stesso anno fu fondata ai piedi di questa montagna la Villa Imperial de Carlos V (colonizzatore spagnolo) e subito dopo cominciarono gli scavi su vasta scala.
Sull’onda del motto “scendi e scava”, migliaia di schiavi indigeni furono costretti a lavorare per portare alla luce argento di prima qualità per conto degli spagnoli.
Il lavoro estrattivo era pero assai pericoloso. A causa di incidenti e silicosi polmonare perirono talmente tanti indios che gli spagnoli, per aumentare la mano d’opera, decisero di importare milioni di schiavi dall’Africa.

Allo scopo di incrementare la produzione, nel 1572 il vicere di Toledo approvò la Ley de la Mita, in osservanza della quale tutti gli indios e gli schiavi africani di età superiore ai 18 anni dovevano lavorare alternandosi in turni di 12 ore. Questi restavano sotto terra senza vedere la luce del sole per periodi di 4 mesi ed erano costretti a mangiare, dormire e lavorare senza mai uscire dalle miniere. Quando poi riemergevano dal sottosuolo al termine del “turno”, dovevano proteggersi gli occhi per prevenire i danni che la luce avrebbe potuto provocare. Ovviamente questi minatori non vivevano a lungo. È stato calcolato che negli oltre tre secoli di dominio coloniale dal 1545 al 1825, nelle miniere di Potosi siano morti complessivamente ben 8 milioni di persone tra africani e indios.
Nel contempo il Cerro Rico, la montagna i cui giacimenti di argento sembravano inesauribili, cominciò ad accusare i colpi dello sfruttamento, tanto che nel 1825, anno dell’indipendenza boliviana era ormai in evidente declino. Ad aggravare la situazione si aggiunse il crollo del prezzo dell’argento verificatosi a partire dalla metà del secolo, che condusse Potosi direttamente nel baratro da cui ancora oggi non è emersa completamente.

La riforma dell’industria estrattiva attuata nel 1952 pose la miniera Pailaviri sotto il controllo statale, con un conseguente notevole miglioramento delle condizioni di lavoro al suo interno. La miniera statale però chiuse, indebolita dagli scioperi, dalle proteste e dal malcontento generale. Attualmente l’attività estrattiva sul Cerro Rico è gestita quasi interamente da cooperative di minatori, le quali, in accordo con le agenzie turistiche della città, lasciano entrare visitatori curiosi che accompagnati dalle guide, osservano il lavoro dei minatori per i cunicoli scavati nella montagna.

Le escursioni iniziano al mercato ai piedi della montagna dove i turisti sono particolarmente incoraggiati ad acquistare beni da lasciare in dono ai minatori come foglie di coca da masticare, alcool, sigarette, bibite o addirittura dinamite. Successivamente al gruppo viene fornito il kit da minatore: stivali, pantaloni, giacca e torcia da applicare al casco di sicurezza. Il tutto molto folkloristico. Già ai piedi della montagna, incontrando i primi minatori che smontano dal turno ci accorgiamo di essere gli unici vestiti così.
A piedi, passando fra le mogli dei minatori sedute davanti alle loro case di fango e lamiera, mentre i bambini giocano nella vecchia fonderia in disuso con sassi e polvere, raggiungiamo l’ingresso di una delle 400 e più mine del Cerro Rico. Dopo pochi passi, quando ancora filtrano i raggi del sole, ci imbattiamo in una raffigurazione di Gesù Cristo, davanti alla quale tutti i minatori fanno il “segno della croce” per chiedere la sua protezione durante la loro permanenza in un luogo che accreditano al diavolo. Siccome l’inferno (secondo la descrizione tradizionale) non deve essere molto dissimile dall’ambiente in cui essi lavorano, i minatori ritengono che i minerali che estraggono e fanno esplodere con la dinamite siano di proprietà del diavolo in persona. Allo scopo di placare questo personaggio collocano all’interno delle gallerie statuette di ceramica in suo onore. Ogni venerdì notte viene organizzato una cha’lla allo scopo di ottenere la sua benevolenza e protezione. Sul terreno davanti alla statua viene versato dell’alcool, nella sua bocca vengono inserite delle sigarette accese e tutt’intorno vengono lasciate a portata di mano delle foglie di coca.

In seguito, come nella maggior parte delle feste boliviane, i minatori fumano, masticano coca, e bevono fino a perdere i sensi. Questo rituale, che viene preso molto seriamente, serve anche a offrire un piccolo diversivo in un contesto in cui le condizioni di vita sono estremamente difficili. E’ interessante notare come le offerte destinate a Gesù Cristo siano fatte solo nel punto in cui i minatori riescono ad godere della luce del sole.Scendendo l’ambiente si presenta umido e freddo (siamo a più di 4200 metri di altitudine), i cunicoli fangosi e stretti si rincorrono nelle viscere della montagna e l’aria si fa sempre più rarefatta e irrespirabile. Percorrendo uno di questi cunicoli, addobbato con bandierine colorate usate per i festeggiamenti di carnevale, incontriamo, sommersi dalla polvere, due minatori che stanno inserendo 20 candelotti di dinamite da far esplodere, per inseguire la fortuna o meglio in termini tecnici “la vena della montagna”. Subito la guida ci tranquillizza definendo i due lavoratori molto più preparati degli ingegneri geologi che studiano all’università, anche se la nostra attenzione viene subito catturata dalla giovane età di uno dei due. Le precarie condizioni di lavoro saltano all’occhio, innanzitutto la precarietà dei mezzi di lavoro, la mancanza di attrezzature di sicurezza e la continua esposizione ad agenti chimici e gas dannosi tra cui la polvere di silice che provoca la silicosi, il gas arsenico, i vapori di acetilene e altri gas che circolano all’interno della miniera. Queste condizioni sono tipiche delle cooperative delle quali i minatori stessi sono proprietari e sono costretti a produrre per sopravvivere; anche le mogli dei minatori lavorano in molte miniere delle cooperative, con il compito di raccogliere i rifiuti di miniera, tra cui piccole quantità di minerale che possono essere sfuggite. Tutto il lavoro viene fatto a mano con l’ausilio di esplosivi e attrezzi che i minatori devono acquistare personalmente.

Per i 16000 lavoratori del Cerro Rico è prevista una pensione di circa 14,50 $ al mese per gli inabili. Un minatore può andare in pensione quando ha perso il 50% della capacita polmonare a causa della silicosi (inevitabile dopo 7-10 anni nel sottosuolo), in caso di morte, stimata dopo 10-15 anni di lavoro, la pensione viene pagata alla vedova o ai figli. Nonostante le leggi e l’organizzazione in cooperative, attualmente i minatori continuano a lavorare in condizioni vergognose e poco dissimili da quelle del periodo coloniale, oltretutto sotto i flash compiacenti dei turisti che osservano questo lavoro, tutt’altro che dignitoso e, divertiti ascoltano le esplosioni della dinamite, ignari del pericolo che stanno correndo.

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