Caschi Bianchi Ecuador

Pensavo fosse Ecuador invece era Colombia

Il lavoro a fianco dei desplazados, che ogni giorno cercano rifugio in Ecuador dalla vicina Colombia, mette in contatto con le incoerenze del sistema normativo e informativo di un paese, con la profonda sofferenza di un popolo, ma anche con la possibilità di rinascere.

Scritto da Marica Di Pierri

Quando mi comunicarono che ero stata selezionata da FOCSIV per il Servizio Civile Internazionale in Ecuador, non pensavo certo che mi sarei ritrovata a lavorare, in modo quasi esclusivo, con le problematiche relative non all’Ecuador ma alla vicina Colombia, in termini politici, giuridici, sociali ed umanitari.
Due elementi, che ancora non conoscevo, avrebbero contribuito in maniera determinante a orientare il mio lavoro quotidiano verso questo Paese notoriamente conflittuale, di cui tanto si parla ma del quale poco si conosce.
Primo tra tutti: la sede del progetto, ubicato nella cittadina di frontiera di Tulcàn, appartenente alla provincia settentrionale del Carchi e distante soli 5 km dal confine colombiano.
Secondo elemento: la natura del progetto, gestito dalla Pastoral Social ecuadoriana ed intitolato “Movilidad Humana y Refugio”, avente come finalità generale quella di fornire orientamento e consulenza ai migranti che transitano sulla frontiera tra Ecuador e Colombia.
La situazione peculiare che si vive al confine, l’inasprirsi del conflitto colombiano nelle regioni meridionali, gli strumenti di tutela giuridica offerti dalla comunità internazionale, hanno reso l’ufficio della Pastoral Migratoria di Tulcàn, in cui lavoro come consulente giuridica, un approdo quotidiano di colombiani in fuga dal loro Paese.

La situazione sulla frontiera

Negli ultimi mesi l’avvio di un nuovo piano strategico nelle regioni colombiane meridionali, dopo i fallimentari tentativi dei governi precedenti, primo tra tutti il Plan Colombia, e la messa in moto delle Operaciòn libertad e Operaciòn Rio Blanco (aventi come scopo lo sradicamento della guerriglia nelle province di frontiera di Narino, Putumayo e Caquetà), hanno spinto un numero crescente di colombiani ad abbandonare le loro case, andando alla ricerca di condizioni di sicurezza e prospettive di vita migliori oltre confine.
La zona di frontiera rappresenta, attualmente, una delle situazioni territoriali più delicate della regione andina.
Problemi particolarmente gravi, che implicano il radicarsi di situazioni di autentico degrado, sono la totale disattenzione statale, la carenza di servizi, il crescente tasso di insicurezza sociale e l’alto livello di vulnerabilità della popolazione residente.
I governi locali e le istituzioni che lavorano nel settore non possono contare su una strategia organica che tenga conto degli effetti della pressione migratoria e della situazione politica e umanitaria che si vive oltre confine; le risorse economiche che arrivano alle comunità provengono da istituzioni internazionali governative o non governative o, in alcuni casi, dalla generosità di singoli privati. Basti dire che in Ecuador non esiste ancora una voce di spesa pubblica per far fronte alla problematica dell’impatto migratorio sulle zone di confine e il dialogo e il coordinamento tra le istituzioni coinvolte sono insufficienti. In questo panorama di mancato coordinamento, le istituzioni ecclesiastiche e non governative presenti, lavorano pazientemente e con i mezzi disponibili per organizzare ed offrire aiuti alla popolazione desplazada, costretta cioè a fuggire dal proprio Paese, in termini di consulenza giuridica, appoggio psicologico ed economico.

Le principali cause di fuga e le misure previste dalla legge per far fronte all’accoglienza

Nelle testimonianze raccolte quotidianamente durante il mio lavoro, si incontrano alcuni elementi ricorrenti: le dinamiche comuni parlano sovente di incursioni da parte delle forze armate irregolari (guerriglia o paramilitari), che irrompono nelle fattorie pretendendo che le coltivazioni tradizionali vengano convertite in campi di coca, da gestire sotto il coordinamento e la protezione dei gruppi armati. Di fronte al rifiuto, vengono lasciate ai malcapitati poche ore di tempo per fuggire, con la minaccia di mettere a ferro e a fuoco le case e giustiziare i dissidenti.
Seconda causa di fuga, in ordine di frequenza, è il rifiuto o l’impossibilità di pagare le quote del racket pretese dalle bande armate nei centri abitati, che mettono a durissima prova i faticosi tentativi dei cittadini di avviare attività proprie, seppur piccole.
Per far fronte all’esodo massiccio di una popolazione in situazione di emergenza, la Pastoral Migratoria gestisce una serie di attività che vanno dalla prima accoglienza di carattere umanitario all’assistenza giuridica.
Appena ricevuto un nuovo caso, dopo aver raccolto un’intervista personale, viene fornita gratuitamente una consulenza legale, realizzando al contempo un’analisi socio-familiare, al fine di indirizzare i singoli casi verso la procedura migliore per assicurare una protezione adeguata.
Lo strumento maggiormente utilizzato è la richiesta di rifugio politico, che presuppone l’esistenza di ragioni persecutorie o di violenza come fondamento della decisione di lasciare il proprio Paese, garantendone così la protezione e la non deportazione.
Secondo l’Art.1 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951, si definisce rifugiato “…qualsiasi persona che fugga dal suo Paese a causa di un timore fondato di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un gruppo sociale particolare e che non possa o, a causa di detti timori, non voglia, sollecitare la protezione del proprio Paese”.
La legge ecuadoriana considera rifugiati anche tutti coloro che “sono fuggiti dal loro Paese perchè la loro vita, libertà o sicurezza risultano minacciate a causa della violenza generalizzata, dell’aggressione straniera, dei conflitti interni, della violazione dei diritti umani o da altre circostanze che hanno turbato gravemente l’ordine pubblico”.
Prevede inoltre, in termini di procedura, che una volta riempito il formulario per la richiesta di rifugio, il richiedente debba presentarsi a due interviste: la prima con l’area di protezione dell’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) e la seconda con il Ministero ecuadoriano di Relazioni Estere. A pochi giorni dalla seconda e ultima intervista, si riunisce infine la Commissione per Determinare la Condizione di Rifugio (composta da due membri del Ministero delle Relazioni Esteriori e un membro del Ministero del governo) che decide su ogni singolo ricorso.
La decisione finale viene poi notificata all’ufficio della Pastoral Social: se si riconosce lo status di Rifugiato, al cittadino colombiano viene garantito il diritto di stabilirsi legalmente in territorio ecuadoriano e gli viene consegnato un carnet da rinnovare annualmente. Al contrario, se la decisione definitiva è di rigetto, l’interessato può decidere, entro 30 giorni, di ricorrere in appello o abbandonare il Paese.

Il problema della sussistenza

Durante l’attesa dello status di rifugiato, però, la legge ecuadoriana impedisce ai richiedenti rifugio di esercitare qualsiasi tipo di lavoro remunerato. Considerato che l’intero processo può durare anche un anno e mezzo, risulta impensabile che intere famiglie, che arrivano in Ecuador in condizioni economiche e psicologiche spesso disastrose, possano sostenersi senza nessun ingresso economico. Per questa ragione, l’Alto commissariato per i Rifugiati, in collaborazione con il Programma Mondiale di Alimentazione, ha accettato la nostra richiesta di inviare stock alimentari, anche se sono insufficienti a far fronte alle reali esigenze della popolazione interessata.
Per tale ragione il nostro ufficio utilizza una serie di strumenti di aiuto umanitario, dei quali può usufruire non solo chi ha ottenuto il rifugio ma anche chi è ancora in attesa, purché risiedano nella provincia del Carchi. Si tratta di un appoggio economico in materia di salute (visite mediche e farmaci), educazione (iscrizione scolastica, divise, materiale didattico), alloggio ed alimentazione per i nuovi arrivati.

Le statistiche

I dati mostrano una graduale ripresa nel numero dei casi attesi che, dopo il boom del 2001 (dovuto alla messa in moto del Plan Colombia e ai suoi devastanti effetti sulla frontiera sud), erano lentamente diminuiti fino a toccare, nel 2004, il minimo storico di 70 casi attesi per un totale di 131 persone transitate nell’Ufficio.
Nel solo periodo gennaio-agosto 2005, al contrario, l’affluenza nell’Ufficio di Tulcàn ha ripreso quota, fino a raggiungere i 112 casi attesi.
Nel periodo compreso tra il 2000 e il primo semestre del 2004, sono state 25.572 le domande di rifugio di cittadini colombiani ricevute dal Governo dell’Ecuador. Di esse, circa il 28% del totale è stato accettato.
In realtà, però, il numero di cittadini colombiani presenti nel piccolo Paese Andino è notevolmente superiore. Secondo le stime della Polizia di Migrazione, i colombiani che nel 2003 vivevano in Ecuador in situazione di illegalità erano circa 250.000, un numero 10 volte maggiore rispetto a quello che risultava dai registri degli uffici migratori del Paese.
Questa realtà si può spiegare, in parte, con il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione colombiana in fuga non possiede alcuna conoscenza in materia di strumenti legali di tutela oppure non conosce gli indirizzi degli uffici di riferimento né le garanzie offerte dalla legge. Spesso, però, a far decidere per la clandestinità è la paura che uscire allo scoperto significhi rischiare la deportazione.

Problematiche d’integrazione

Numeri alti che hanno comportato un ingiustificabile atteggiamento di intolleranza della popolazione ecuadoriana nei confronti degli immigrati colombiani. Si tratta di una problematica ben visibile nella zona di frontiera in cui vivo e lavoro, dove quotidianamente ci si relaziona con episodi di razzismo e intolleranza che, spesso, coinvolgono anche le istituzioni educative.
Per questa ragione, l’Ufficio si è incaricato di organizzare alcuni seminari diretti agli insegnanti delle scuole di confine, per sensibilizzare la classe docente sul tema dell’educazione alla tolleranza e sulla necessità di facilitare una completa integrazione della popolazione colombiana in territorio ecuadoriano.
Al pregiudizio diffuso, secondo cui i colombiani portano con sé un potenziale di violenza endemico, si unisce una pressione eccessiva da parte dei mezzi di comunicazione, che non cessano di trattare le notizie di rifugiati con un sensazionalismo che non aiuta affatto alla comprensione dei problemi di convivenza né alla ricerca di soluzioni valide.
I media continuano a presentare un’immagine totalmente negativa della realtà di confine, rafforzando l’idea che si tratti di spazi ingovernabili, con una forte presenza di gruppi armati irregolari; il che, probabilmente, non serve se non a giustificare la reale e imponente presenza militare nella zona.
Questa versione “ufficiale”, secondo cui l’afflusso di colombiani in fuga dal proprio Paese sarebbe la ragione principale della carenza di servizi, della mancanza di lavoro, dell’aumento di violenza e dell’insicurezza sociale, evidenzia una scarsa conoscenza dell’impatto che il Plan Colombia ha avuto sulla linea di confine, impatto che costituisce la causa di molti dei problemi emergenti nella zona.
La crescente militirarizzazione, le fumigazioni, le azioni violente contro la popolazione civile, creando un regime di paura e di instabilità, sono i veri colpevoli del deteriorarsi della situazione,.

Il senso dell’esperienza

Per lo meno questo è quanto ho potuto osservare finora, grazie a questa esperienza di servizio civile all’interno del progetto di “Movilidad Humana y Rifugio”.
Un’esperienza che mi ha dato e mi sta dando tanto non solo sul piano professionale ma anche su quello umano.
Si tratta di una tipologia di lavoro che coniuga la professionalità e l’attenzione umana, l’abilità e il tatto, la competenza giuridica e la capacità di ascoltare.
Un’esperienza frutto di una scelta intimamente radicata, che dà un senso a tutto ciò che ti circonda, nella consapevolezza che quanto si riceve e che l’arricchimento umano che ne deriva, valgono molto di più del contributo professionale che nel frattempo si è riusciti a dare.
Confesso che al principio è stato piuttosto duro non lasciarmi sopraffare dalle emozioni: mi sono trovata a contatto con realtà davvero forti, con un dolore autentico e lacerante che si legge negli occhi, nel tremore delle mani, nelle richieste aperte di aiuto. Un dolore tanto lontano dalle nostre vite protette, che non si può neanche immaginare fino a quando non te lo trovi davanti; e improvvisamente ti risulta insopportabile, destabilizzante, ingestibile.
Nelle prime settimane di servizio quaggiù, mi sono ritrovata a gestire i casi più difficili: famiglie disgregate, adolescenti sequestrati, provati, senza più gioia negli occhi. Gente terrorizzata, violata nell’intimo, senza più nulla, senza prospettive.
E incredibilmente, quello che mi ha dato più forza, è stato rendermi conto della determinazione con cui questa gente reagisce, rimboccandosi le maniche nella convinzione di poter iniziare una nuova vita.
Non c’è lezione più grande di vedere chi non ha più nulla rinascere con immutato entusiasmo. Un entusiasmo che ti distoglie dai problemi insignificanti dei quali costelliamo le nostre vite comode, e ti porta a credere che non ci sia nulla di più forte della volontà, della fede nel futuro, per continuare ad andare avanti a testa alta e venir fuori da qualunque tunnel, per quanto lungo o oscuro.

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