• Enrico Monti, Casco Bianco in Tanzania, 2010

Caschi Bianchi Tanzania

Un anno fa

Al rientro i ricordi di un anno di servizio affollano i pensieri, e spingono a guardare la quotidianità con occhi diversi e con la consapevolezza che molte cose non saranno più le stesse.

Scritto da Enrico Monti, Casco Bianco a Iringa

Un anno fa, mi trovavo in un posto un po’ diverso rispetto a dove mi trovo adesso, qui a Bologna nel mio ufficio; fuori c’è freddo e umido, di quello che ti entra nelle ossa e non lo mandi più via. Dove mi trovavo un anno fa’ era invece caldo, si stava in infradito, pantaloni leggeri, maglietta, anche se almeno una volta al giorno pioveva, pioveva davvero.

Un anno fa, a quest’ora di mattina, stavo quasi sicuramente pulendo la sala e la cucina, oppure ero intento a lavare i panni dei bimbi, dividendoli gli uni dagli altri e riponendo i vestiti in una bacinella con un pugno di sapone in polvere e un secchio d’acqua per il risciacquo. Sicuramente avevo vicino a me Zulfa, lei amava guardare la gente intenta a svolgere quei lavori così noiosi ai più, ma così entusiasmanti per una bimba di 5 anni costretta su un passeggino a causa di un parto dove non tutto era andato liscio. Se qualcuno si azzardava a portarla lontana dalla lavanderia iniziava una serie di lamenti e urletti da prima donna a cui nessuno poteva resistere; metterle sulle gambe il tubo dell’acqua e azionare la pompa, vedere l’entusiasmo e la gioia di sentirsi protagonista della vita di casa…fotografie chiare e nitide nella mia mente.

Un anno fa ero giunto in Tanzania da soli 19 giorni, e se si escludono i saluti che avevo già imparato, il resto della lingua swahili mi risultava un completo enigma. Quei suoni temevo non sarebbero mai entrati nelle mie corde e che il corso di lingua di un mese, che stava per iniziare 5 giorni dopo, sarebbe stato duro. Però ho sperimentato la comunicazione senza la carta della lingua in comune: in realtà i modi di comunicare sono davvero tanti, e non mi riferisco all’inglese parlato da Justin e Cenny, perché tanto io non lo so l’inglese, ma parlo di quei canali fatti di gesti, segni, suoni, dimostrazioni fisiche…ricordo che  tra i bimbi quello con cui mi capivo di più paradossalmente era Issa: sordomuto, ma proprio per la sua condizione forse colui che maggiormente sa rapportarsi con quelli che giungono li, perché lui vive in quel mondo, fatto di gesti, dove devi farti capire senza le parole.

Un anno fa’ era un mercoledì e a pranzo si mangiava “ugali na mboga”, polenta bianca a base di farina di mais e acqua con verdure cotte, quasi sempre foglie di varie piante, fagiolo, patata dolce, ecc… Ho sperimentato cosa vuol dire mangiare un piatto unico per pasto, un piatto semplice. Mi accorgo che a casa tante volte non facevo nemmeno caso a quello che mangiavo, davo per scontato l’avere la pasta, un secondo, il pane, l’acqua pulita. Ora mi accorgo di quanto ho, ci faccio più attenzione, tante volte mi sembra troppo, troppa la varietà, troppa la quantità, troppi anche i piatti per le varie portate!

Un anno fa’ la maggior parte del mio tempo lo trascorrevo all’aperto, in giardino quando ero a casa, poi per strada andando a Ipogoro al centro Kizito. Sotto il sole che ti cuoce naso, fronte, zigomi, avambracci e piedi lasciandoti il segno dell’infradito, mangiando polvere secca che ti entra anche nei pori della pelle, oppure su strade bagnate, con il fango che ti sporca i piedi, il fondo dei pantaloni, che ti fa scivolare; altre volte sotto la pioggia dirompente, di quella che bastano 10 secondi per ritrovarti zuppo fino alle mutande. Ora mi ritrovo spesso chiuso da qualche parte, al mattino quando il sole sorge sono in auto, piove, nevica, cambia il tempo e io sono al chiuso, in ufficio, a casa. Mi manca quella vita all’aria aperta, il giocare, lavorare, mangiare fuori da ambienti chiusi, vivere il giardino, la strada, vivere la gente.

Un anno fa’ ero straniero in una terra che non era la mia, sono stato additato per strada, nei luoghi pubblici, imbrogliato, ho discusso di razzismo con dei tanzaniani, di equità. È buffo pensare che qui in Italia uno straniero viene controllato sull’autobus per vedere se ha fatto il biglietto, ci si abbandona al luogo comune che probabilmente non l’ha fatto, perché non ha i soldi per pagarlo oppure vuole fare il furbo. A Iringa sui mezzi pubblici tentavano di farmi pagare di più o non volevano darmi indietro il resto perché ero bianco e dunque avevo denaro e potevo spendere di più solo per il colore della mia pelle. Una volta mi sono pure arrabbiato con un “conda”, uno di quei ragazzi che chiedono i soldi e fanno fermare i piccoli bus pubblici, perché non mi aveva dato il giusto resto e io invece l’ho preteso; ero stato l’unico a non riceverlo. Mi ha accusato di essere cattivo a pretendere soldi che a lui servivano per mangiare…adesso sorrido a ripensarci, anche se la mia reazione è stata sbagliata: alla fine è ripartito che ancora discutevamo e io gli ho urlato dietro che invece di fregare un bianco e spendere i soldi per quei bei vestiti che sfoggiava con fare da esibizionista poteva davvero comprarsi da mangiare.

Ho capito cosa vuol dire sentirsi oggetto di pregiudizi, essere vittima di razzismo, anche pacato ma sempre di razzismo si tratta; e ho capito cosa devono provare quelle persone trattate da diversi ogni giorno nel nostro paese.

Un anno fa girando per strada mi capitavano incontri strani, incontri piuttosto rari da fare a Bologna: ragazzini, poco più che bambini che brulicano per le vie più caotiche di Iringa, intorno al mercato, all’inizio della “via degli indiani”, sempre in gruppetti di 3 o 4 ma mai troppo distanti gli uni dagli altri. Girano, vagano, ti chiedono da mangiare, dei soldi, sono sporchi e trasandati e assumono facce poco convincenti per impietosire i passanti. Sono i ragazzi di strada. Avevo imparato a conoscerli anche perché erano sempre le solite facce, e loro avevano imparato a conoscere me. Dopo qualche settimana che mi vedevano passare ogni giorno a fianco del mercato, poi giù per la via degli indiani e di nuovo di sotto al mercato piccolo che sorge in cima alla scalinata che porta a Ipogoro, si sono incuriositi a me: questo bianco a piedi, con solo una borsa a tracolla, che sapeva un po’ di kiswahili, e ci siamo scambiati qualche parola. Non credevano che fossi Enrico perché quello che conoscevano era adulto e stava a Gangilonga (si riferivano a Enrico, missionario della comunità a Iringa da 16 anni che accoglie nella sua casa famiglia ragazzi di strada) e quando hanno capito che lo stesso nome poteva essere attribuito a due bianchi diversi mi hanno chiamato Enrico Kutembea, che è il verbo camminare, per via del mio quotidiano pellegrinaggio verso Ipogoro. Da quella volta ogni giorno la scena dell’elemosina e poi un saluto, un augurio di buona giornata chiamandomi per nome.

Un anno fa mi chiedevo cosa voleva dire vivere un’esperienza del genere, lontano da casa per tanto tempo, in un contesto radicale per stili di vita, natura, mentalità, cosa poteva provocare al mio animo, al mio pensiero, come ne sarei uscito fuori, cosa avrei “fatto” per quei poveri a cui ero stato messo accanto, senza precisi ordini: “andate e fate quello che c’è da fare” c’era stato detto.

Si, un anno fa mi chiedevo tutto questo, facevo tutto questo.

E se devo dare una risposta così al volo, non ce l’ho. A noi Caschi Bianchi piace anche dire che bisogna metabolizzare, ragionarci, far passare del tempo, ed è vero; ma io so che certe cose sono cambiate e in maniera definitiva, in ognuno di noi probabilmente, in me sicuramente. Sono state tutte quelle cose che ho raccontato e anche quelle che porto solo nel ricordo, ricordo dell’esperienza più vera della mia vita.

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