Ieri mattina camminavo tra la terra bagnata dalle piogge di questa stagione e sono arrivata alla fine di una stradina piena di cosiddetto “matope” – fango in kiswahili – con le scarpe pulite e senza nessuna macchia sui piedi. Ero così fiera di me, questa è una competenza speciale della popolazione keniana e finalmente sono riuscita a farla mia, dopo mesi di scivoloni e piedi sempre sporchi.
Mi trovo nella periferia di Nairobi, in Kenya, e vivo nel Centro G9 insieme a 20 bambini tra i 5 e i 18 anni provenienti da una vita di strada e da contesti familiari vulnerabili, oltre ad altri volontari e volontarie. Sul finire di questo anno di Servizio Civile mi trovo a fare dei bilanci, a pensare e ripensare ad alcune considerazioni dolci e amare. E penso spesso alle scarpe perfettamente linde con cui le persone vanno in giro, nonostante le strade sporche, impolverate e piene di matope, appunto. Eppure, accade a volte che i fiumi straripano, le acque di scolo delle fognature fuoriescono e piove tanto e tutto si mischia: alcuni tratti diventano inagibili e per passare bisogna necessariamente immergere il piede in quella poltiglia. Oppure si confonde un pannolino nascosto nel fango per una roccia, e si affonda in quel liquame.
Non riesco a trovare un’immagine migliore per raccontare la vita in Kenya e le vite di tutte le persone incontrate: in questo paese c’è chi resiste nonostante un contesto difficile, dove le case sono minuscole e asfissianti e i pochi soldi guadagnati bastano esclusivamente per mettere qualcosa in tavola. In queste condizioni c’è chi mantiene una dignità incredibile, lotta con ogni strumento che ha per fare andare le figlie e i figli a scuola, per assicurare loro un futuro migliore del proprio. C’è chi riesce a mantenere quelle scarpe pulite nonostante la criminalità diffusa, l’inaccessibilità di diritti essenziali quali la salute, l’istruzione, la casa. C’è chi prova a prendersi cura del marito o dei familiari malati, nonostante spesso non abbia abbastanza, nemmeno per sé. Ci sono figlie che si prendono cura della propria mamma epilettica, talvolta sacrificando anche qualche giorno di scuola. Ci sono ragazze e ragazzi che riescono a finire le superiori e il college o l’università, nonostante provengano da una baraccopoli in cui spesso non c’è nemmeno la luce e l’acqua.
Ma ogni tanto c’è anche chi scivola in questo abisso, chi inizia a bere o a fare uso di sostanze e lascia la scuola, nonostante i risultati positivi e la strada bella che stava costruendo. C’è chi si trova a vivere in strada perché la famiglia è violenta e lo percuote in continuazione. C’è chi decide di prostituirsi per poter mantenere la propria famiglia. C’è chi sta con uomini violenti, possessivi, con vite dissolute e che mantengono le donne attaccate a un filo di ricatto economico ed emotivo. C’è chi vive gravidanze indesiderate. C’è chi un giorno, all’improvviso, vede la mamma sparire e lasciarla da sola, insieme alla sorellina, senza nessun’altro. C’è chi prova ad andare a scuola ma è continuamente stigmatizzato come ragazzo di strada da insegnanti e compagni, e allora fa fatica a continuare a concentrarsi e a studiare. C’è chi ruba, chi non è in grado di prendersi cura dei propri figli, chi si ritrova la porta di casa chiusa con un lucchetto dal proprietario perché sono mesi che non paga l’affitto.
In questi mesi ho visto che le persone possono anche rinascere, risorgere, le scarpe possono essere lavate e si può continuare la strada. I segni rimangono, il percorso non è facile, bisogna lottare tanto e imparare a convivere con le cicatrici fisiche e spirituali.
Qualcuno cade e rimane bloccato nel fango. Qualcuno ha bisogno di una mano, della nostra mano, per tirarsi fuori e riprendere la strada. Qualcuno ha bisogno di camminare insieme per un tratto, facendosi da supporto l’un l’altra. Qualcuno ha bisogno di fiducia, di chi fa il tifo per te e ti dice che ci crede, che ce la puoi fare. Qualcuno ha bisogno di qualcun altro che è più in alto e vede che il fango ad un certo punto finirà.
In questi mesi in Kenya ho toccato tanta Vita, tante Storie. Ho toccato tanto dolore, sofferenza, ma anche gioia per piccole cose o per traguardi grandi, fino a poco tempo prima, inimmaginabili. Ci ho messo le mani, i piedi, tutto il mio corpo – ed anch’esso è stato toccato, spossato, sporcato, ed ha avuto bisogno di essere, a sua volta, curato. Non so ancora cosa esattamente mi porto a casa o cosa lascio in Kenya. Sento però lo schiaffo di tanta ingiustizia che ricade quotidianamente sulla vita di tanta gente e brucia, chiedendo di non dimenticarsi di loro e di continuare a impegnarsi e lottare.
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