Albania Caschi Bianchi

Essere casa, essere a casa

Una riflessione, quella di Aurora, sul significato e le forme della povertà

Scritto da Aurora Incitti, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 tra Scutari e Tirana

Provare a essere “casa” per qualcuno è un compito alquanto difficile. Presuppone un coinvolgimento emotivo, la necessità di una relazione costante, reciproca e tante piccole cose e azioni quotidiane semplici, ma non scontate per molti, per i molti che il senso di “casa” non lo hanno mai provato, o lo hanno sperimentato solo in parte.

A livello generale, quello della povertà materiale e simbolica è un tema molto ampio e discusso. Non è facile categorizzare, non è facile creare dei confini tra chi è “povero” e chi non lo è. La povertà prende aspetti differenti in situazioni completamente diverse, tanto che si può essere poveri anche con un tetto sopra la testa. Si può essere poveri non solo materialmente, ma soprattutto simbolicamente. Si può essere poveri senza rendersene conto.

La colpa può essere attribuita al degrado, alle politiche mancanti e mancate, al non sentirsi parte di un progetto o di un sogno più grande. Nella realtà le cause sono molteplici, più complesse, e ci si potrebbe perdere cercando di puntare il dito ora verso una tale cosa, ora verso di un’altra, perdendo il filo del discorso e il compito di riflettere e agire per trovare soluzioni concrete come singoli cittadini, come gruppi o associazioni, come ideatori di politiche sociali, educative, economiche…

Negli ultimi anni, ho avuto modo di riflettere molto e in modo approfondito sul rapporto tra povertà, storie di vita, contesto di riferimento e la questione abitativa intesa non solo come l’avere un tetto sopra la testa, ma anche come tutto ciò che la casa racchiude in sè a livello simbolico. Questo è un tema a me molto caro, perciò ho provato a chiedermi anche oggi, qui in Albania – dove è forte il bisogno di rispondere in modo concreto ad un buco istituzionale, culturale, sociale e interiore – cosa possiamo fare come Caschi Bianchi per rispondere a ciò. Intendo dire: come possiamo noi, ragazze e ragazzi, farci casa per qualcuno in ambienti che conosciamo poco e di cui non conosciamo così bene le dinamiche, in cui ci troviamo a vivere per un tempo definito e senza troppe competenze, ma spinti solo da un forte senso di giustizia? Possiamo descrivere la realtà e da quella partire per la nostra azione concreta solo attraverso il nostro occhio che osserva e prova a conoscere, attraverso le esperienze vissute e i racconti  di coloro che incontriamo nei luoghi dove facciamo servizio e con qualche lettura di qualche articolo o libro qua e là .

Da quello che ho potuto osservare io, nella Casa Famiglia dove vivo, dalle persone che gravitano intorno a questa realtà e nel servizio alla Capanna di Betlemme attraverso cui incontriamo le persone marginali –  penso, ma questo è solo la mia riflessione –  che prima di parlare di rete e progettazione, è forte il bisogno di prendere a cuore una situazione, o più situazioni, sognarle, immaginare vie possibili e trovarsi in  prima linea, con il nostro esserci, nel nostro piccolo, per combatterle.

Da questo sto avendo la conferma, una volta di più, di come i poveri non siano solo coloro che vivono per strada. Mi rendo conto di come spesso ci si definisca poveri solo per quello che non si ha a livello materiale, tanto che una fetta di popolazione molto grande non si rende conto che esiste un modo di vivere diverso da quello al quale si è abituati.

Ci sono storie di vita di uomini e donne che faticano a mantenere una casa, faticano a creare una quotidianità lineare e positiva sia con i membri della propria famiglia, sia con il resto della società, finendo per dare una definizione non esaustiva di casa: quattro mura e un tetto sopra la testa; se poi le relazioni al suo interno e i bisogni primari siano esauditi, poco importa. E in questi casi diventa difficile, se non impossibile, chiedersi se esista altro che dia un valore aggiunto alla propria esistenza. E questo valore aggiunto, questa progettualità esistenziale, inizia nel momento in cui si ha un luogo sicuro, positivo dove vivere, uscendo dal bisogno e entrando nella dimensione del desiderio.

Spesso all’interno delle famiglie si racconta di violenze o limitazioni alla libertà di autodefinirsi come persone con dei sogni. Spesso la presenza di una figura autoritaria che di solito si identificata con l’uomo capo famiglia, fa pressione su chi sta “sotto” di lui, soprattutto sulle donne, perpetuando una costante sottomissione a ciò che è giusto per una mentalità maschilista. E allora vediamo giovani donne che vivono la famiglia e la casa come un inferno, o forse, semplicemente, non se ne accorgono nemmeno più di tanto, perché questo è ciò che è stato insegnato loro.

Altre volte si vedono invece persone che provano a dare un senso a quel poco che hanno, facendo fruttare quei pochi soldi ricevuti come stipendio per un lavoro per il quale, in molti casi, non c’è nemmeno la possibilità di prendere dei giorni di  malattia per positività al Covid-19 senza la paura di essere licenziati. La fatica di un orario di lavoro che non ripaga nemmeno una minima parte della propria fatica. Ciò ti porta a passare poche ore di sera, stanchi e sfiniti davanti al focolare domestico, aspettando un nuovo giorno, mettendo da parte sogni, bisogni e salute, ché dei soldi c’è bisogno per pagare l’affitto e comprare quel poco per sfamarsi e scaldarsi, e non avanza nulla. In questi casi tutto il resto passa in secondo piano.

Altre volte ancora, sono le strade a ridare una visione sconcertante e terribile di un fallimento umano. Le persone che incontriamo una volta alla settimana per le strade di Tirana spesso ci raccontano  storie di sofferenza e paura. Sono uomini e donne, spesso di età avanzata che girano con un’infinità di vestiti, uno sopra l’altro, per non sentire freddo e due sacchi della spesa dove racchiudono tutto quello che per loro è casa. Il sangue mi si gela, non tanto per i racconti, ché io l’albanese lo capisco a metà. I loro occhi, l’osservazione dei loro volti e dei loro pochi averi mi rimanda al senso più totale di sconforto mascherato dall’idea di essere fortunati, perché c’è sempre qualcuno che sta peggio. La paura di fidarsi di noi, di un luogo dove poter mangiare e fare una doccia calda, la paura di uscire dalla propria zona di comfort sono solo alcuni degli aspetti che riscontro.

Spesso queste situazioni diventano ancora più complesse a causa di problemi di salute fisica e mentale. Ma il sistema di sanità pubblico deve ancora fare molti passi per rispondere ai bisogni delle persone e l’impegno verso la consapevolezza di uno sguardo positivo e di normalizzazione della salute mentale è una chimera ancora lontana da raggiungere.

Penso che in un Paese dalle tradizioni e dalla storia molto antiche, ma allo stesso tempo giovane per quanto riguarda le politiche sociali, l’attenzione verso il benessere fisico, psicologico e sociale debba ancora formarsi per bene e radicarsi. Nel mentre sono le piccole azioni quotidiane di persone che, senza un ruolo sociale di spessore, possono agire dal basso ed unirsi per creare percorsi divergenti.

Sto riflettendo molto e continuo a chiedermi effettivamente come poter essere casa per qualcuno e come fare sentire a casa le persone che, estrapolate da un contesto altro, vengono accolte nella Casa Famiglia e vedono la loro vita stravolta. Non ho una risposta chiara. Penso che sia solo un continuo costruire insieme piccoli nuovi mondi e modi di essere puntando e partendo dai punti di forza e dagli interessi e talvolta scoprire che sono i miei stessi interessi e punti di forza; creando momenti esclusivi in cui sentirsi importanti e capaci, ma anche momenti di condivisione e rispetto dell’altro; costruendo dei porti franchi in cui crescere e conoscersi da cui partire per confrontarsi con l’altro e con le fatiche esterne.

Ma tutto ciò partendo da una casa, in cui si ha la certezza di avere un posto proprio e di nessun altro. In cui sentirsi a proprio agio nel  coltivare la tranquillità e la leggerezza, senza doversi preoccupare di sopravvivere.

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