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Bolivia Caschi Bianchi

Lettera ad un Alcolista

“Vi ho visto essere responsabili, svegliarvi ogni mattina con un sorriso nuovo, cambiare radicalmente, (…) poi però tutto scompariva, si dissolveva”.
Un flusso di immagini, ricordi, volti e sorrisi… dedicati ai tanti Alejandro “che come te, dopo mesi e mesi di apparente equilibrio ritrovato, ricadevano nelle voragini di una vita passata”.

Scritto da Nicolò Segato, Casco Bianco in servizio civile con Apg23 a La Paz

Caro Alejandro,

Mi capita spesso di sentire l’esigenza di dover staccare la spina dalla quotidianità. Tagliare l’energia delle frenetiche giornate del quotidiano, lasciar cadere a terre i pesi del vivere in comune, e guardare ciò che resta mentre si ascolta il tonfo dello zaino carico di pensieri e incertezze, cadere al suolo sollevando polveri dimenticate. Mi aiuta molto. Mi serve per riprendere a respirare godendomi ogni inspiro ed espiro, riossigeno il cervello e sento che, piano piano, si vanno ad ordinare le parti più scollegate delle esperienze vissute. La mia mente è come una stanza nei primi giorni di primavera. Le finestre spalancate offrono il passo ai primi venti caldi, profumati dai petali appena sbocciati, e spazzano le polveri addormentate dall’inverno. Una nuova e ricorrente rinascita. Ci si sente più leggeri. Mi rilasso facendomi cullare da questa aria rigenerante. Sorrido.
Ma questa stanza non può restare vuota così a lungo, queste pareti così bianche hanno bisogno di essere abbellite dai ricordi e dai sorrisi che mi hanno accompagnato fino a qui. Ho sempre avuto una vena nostalgica, o meglio mi è sempre piaciuto fotografare persone, momenti e luoghi per poi divertirmi a riguardare quegli sguardi, quelle risate, e tentare di ricordare i profumi e gli aromi di momenti passati, decifrare le linee delle rughe, analizzare le espressioni di ciascuno nell’impresa di ricordare a cosa stessimo pensando. I particolari degli sguardi hanno sempre avuto un senso profondo per me. Seduto tra la povera vegetazione andina, scrutando l’Illimani all’orizzonte inizio a scorrere le foto della mia esperienza boliviana. Vedo dei ragazzi appena sbarcati, leggo tra i loro occhi tante emozioni, si percepisce un’energia positiva, qualche espressione trasuda un certo grado di preoccupazione, sembriamo spaesati, ma felici di essere immersi in un’esperienza tutta ancora da costruire e vivere. I primi scatti disegnano luoghi incantati, meraviglie della natura che ancora adesso rendono difficile calcolare il margine invisibile tra sogno e realtà.

Continuo a scorrere.

La mia memoria visiva ora è impegnata a raccontarmi dei primi incontri con voi, hermanos de comunidad. Gli occhi incastrati tra sguardi spaesati raccontano il fiorire di relazioni, intrecci culturali che seminano amicizie responsabili che si snodano tra i campi di mais, lavorando sotto il sole, o si immergono in sentieri sconosciuti al finire di un’uscita in montagna. La quotidianità dei miei giorni stampata a colori mi fa rivivere le stesse emozioni forti provate in quei momenti. La curiosità di scoprire un altro così distante dalle cartine mondiali e così vicino nella condivisione di pratiche di bellezza dal basso, attraverso il contatto umano.

La leggerezza dell’animo riempie così quella stanza di una nuova verbe, rivitalizza.

Scorro l’ennesima foto finché, nuovamente, rivedo quegli occhi. Il cuore per una millesima frazione di secondo smette di pulsare. Il respiro, così regolare e quasi impercettibile, si riattiva tutto d’un colpo. La fronte si fa ora più fredda. Nella mia testa gironzolano solamente due parole. Due parole che ora non hanno molto significato, probabilmente servono solo a darmi pace. Servono a me, più che a te.

Mi dispiace. Veramente.

È da quel dannato giorno che voglio scrivere qualcosa, da quel dannato giorno che ti penso. Non ho neanche avuto l’occasione di salutarti, di darti un ultimo abbraccio, di farti capire per la centesima volta che valevi molto di più della vita che stavi facendo. Sei sempre stato un infermo alcolico, un alcolista, un tossicodipendente, un egoista testardo, un disadattato. Ma eri anche un ragazzo di neanche trent’anni, una vita davanti ancora da scoprire e vivere. Nei vari sentieri possibili davanti a te, avresti potuto scegliere diversamente, non era ancora detto, c’erano ancora delle possibilità, eri ancora tu l’artefice del tuo destino.

Sto fissando la tua espressione felice mentre ti insegnavo a cucinare il ragù, appena prima di festeggiare la festa della comunità. Non riesco più ad andare avanti a sfogliare l’album dei ricordi.

Te ne sei andato una notte di ottobre e ti hanno lasciato sanguinante tra le strade desolate de La Paz. Un corpo senz’anima agiato tra il piscio dei cani e i cocci di bottiglie di vetro. Ti hanno sparato nel mezzo della notte e, come se fosse la cosa più normale, lasciato lì come spazzatura. Probabilmente eri ubriaco marcio, probabilmente conoscevi anche i tuoi assassini. Chissà in quali casini ti eri cacciato, come in gran parte della tua vita, ma questa volta nessuno ha voluto darti la seconda possibilità. Tu per primo te la sei negata.
Ma che importanza ha parlarne ora? Ormai non esisti più.

Per me ha molta importanza, invece.

Questa lettera non vuole essere solo un ultimo addio, il saluto che non sono riuscito a darti. Voglio dedicare queste parole a tutti gli Alejandro che ho conosciuto finora. Perché penso che il giorno che hai abbandonato la C.T., dopo l’ennesima ricaduta, offendendo e rinnegando tutti coloro che, fino a quel momento, erano state le uniche persone a comprenderti ed accertarti per la persona che eri, sia stato il primo passo verso l’oblio. Una caduta lenta, ma rovinosa. Letale.

“Tanto ce la faccio da solo, non ho bisogno del vostro aiuto, non ho bisogno di una vita in comunità”.
Questa frase, uscita dalla tua bocca, echeggia di un egoismo strafottente quasi a dimostrare di riuscire a sentire completamente il mondo ai tuoi piedi. Quante volte l’ho sentita e quante altre volte ancora la sentirò. La verità è che, tolta la sottile patina che ricopre queste parole di superbia, si nasconde una profonda fragilità d’animo che si fa largo tra lo spirito ed i pensieri nutrendosi compulsivamente dell’anima della persona, mostrandone solo la parte più cruda. Ci si sente invincibili, si arriva a pensare di poter controllare questa malattia senza un sostegno esterno, senza una terapia, senza un medicamento. “Questa volta ho imparato” dicono, e si lasciano alle spalle la porta del centro, con il petto gonfio raccontando, a loro stessi, l’ennesima bugia. Dopo qualche giorno mi è capitato di rivederli per le strade del centro. Alcuni neanche ti salutano, probabilmente pieni di vergogna e risentimento o perché l’alcol ingerito ha annebbiato, ancora una volta, non solo la vista, ma anche i ricordi di un cammino intrapreso e abbandonato alla prima salita pendente. Perché è più facile faticare alla ricerca della distruzione che caricarsi i propri fardelli e scalare le cime delle proprie debolezze.

Il programma, fin da subito, esorta a vivere la comunità con trasparenza e sincerità. A riconquistarsi la fiducia persa tra le mille menzogne e le distruzioni. Il corpo e la mente collaborano nell’ingombrante ricerca di un sé svanito, svalorizzato e screpolato nel corso di una crescita personale caratterizzata da una incessante fuga dalla società, troppo carica di dolori e paure. Nelle strade delle città, nelle notti di folle nichilismo le uniche ancore che permettono di galleggiare nel mare della sopravvivenza sono veleni liquidi, polveri bianche ed esigue pastiglie che ricordano e rafforzano quel senso di rabbia e vendetta che ognuno prova per sé stesso. Ed è proprio questo il punto focale, il bivio nel sentiero nel quale la strada giusta che conduce alla libertà è solo una. Ed è proprio qui, che ognuno decide, sceglie, se veramente vuole cambiare la propria vita o se questa ennesima battaglia significhi per lui solamente un modo per staccare, disintossicarsi, prendere il cammino più largo per poi rituffarsi in questo mare di solitudine e morte. Il programma richiede questo. Le varie droghe, le sostanze in sé passano in secondo piano. Il fulcro nevralgico di questi diversi interventi riabilitativi è aiutare la persona a maturare una ferrea consapevolezza sulla sua condizione di “infermo”, sui suoi limiti cognitivi ed emotivi, far emergere le sue debolezza e, ad una ad una, darle un nome, una forma, un colore.

Il lavoro, che sia sotto forma occupazionale, cercando di dar vita ad un orto, sforzandosi di mettere in gioco pazienza, costanza, tolleranza alle frustrazioni, nel prendersi cura di una piccola fattoria, imparando a convivere con delle relazioni che si fondano su gesti amorevoli, senza ricompense materiali o verbali, o che spazi in forme più psicoterapeutiche all’interno di gruppi formati per dare un tempo e un luogo per riprendere le redini della propria esistenza, svestendosi di false immagini e maschere che per anni hanno determinato azioni e forme di pensiero disfunzionali, deve avere questa direzione: la persona in sé.

Siete voi i protagonisti del vostro cambiamento. Così semplice da dire, così facile da consigliare, così bello da ridirselo ogni giorno e così maledettamente difficile da introiettare, da vivere.

In tutti questi mesi ho visto persone, uomini, prendere in mano la propria vita e cercare di plasmarla e trasformarla attraverso una luce nuova. Vi ho visti essere responsabili, svegliarvi ogni mattina con un sorriso nuovo, tirato fuori chissà da quale cappello magico, motivarvi e caricarvi di energie positive per affrontare l’ennesimo giorno rinchiusi in comunità, una palestra sociale dove allenarsi quotidianamente nella speranza di diventare dei piccoli campioni con le proprie vite. Ho visto ragazzi cambiare radicalmente dal momento che han varcato la soglia di questo bellissimo centro, mesi e mesi dove piano piano si migliorava, si tornava a vivere. Prima di tutto svaniva l’egoismo, e subentrava la richiesta d’aiuto, poi veniva la consapevolezza di avere un problema e si arricchiva di una motivazione al cambiamento. Con il tempo le diverse condotte da calle si affievolivano poco a poco, per dar spazio alla condivisione, all’altruismo, al porsi limiti, a non pensare all’immediato, ma vedere anche aldilà del valico, a pensarsi in un domani, a costruire il proprio futuro sotto forma di progetti di vita.
Vi ho visti centrati nel programma, mi avete impressionato innumerevoli volte e vi ho ammirati per lo sforzo fisico e mentale posto in ogni goccia di sudore e in ogni pensiero materializzato in parole.

Poi, però, come se fosse già tutto prescritto, come se fosse già segnato in un crudele calendario immaginario, con l’improvvisa forza di un tuono a ciel sereno, tutto ciò scompariva, si dissolveva e il cielo ritornava blu scuro. Ho provato tante volte un senso di vuoto e impotenza sentendo perdere in un colpo solo tutte le presunte certezze coltivate dal tempo, ho scrutato i vostri occhi nell’intento di scendere così a fondo per scoprire se veramente fossero gli stessi occhi che mi resero fiero e pieno di stima per voi. Guardandovi recuperare i vostri oggetti personali, era difficile sradicare e intendere i vostri pensieri, la vostra mente già stava fuori, già sapeva come sarebbe finita. Tanti hermanos che come te, dopo mesi e mesi di apparente equilibrio ritrovato, ricadevano nelle voragini di una vita passata, fatta di autosufficienza apparente e una consapevolezza frammentata, come se fosse possibile navigare una barca perdendo il timone tra le onde della tempesta. A quel punto rimane solo da scegliere lo scoglio migliore per farsi meno male.

Ma che vita è questa? Perché continuare a farsi trascinare dalla marea senza avere il minimo controllo? Senza poter scegliere la rotta?

Ogni qualvolta mi ritrovavo a salutare uno dei ragazzi prima della sua uscita dalla comunità, o quando al mattino ti svegliavi e ascoltavi le ipotesi su come fosse avvenuta l’ultima fuga, mi ronzavano in testa un sacco di domande, alle quali ancora oggi faccio fatica a rispondermi.

E allora questa lettera, queste parole le scrivo anche per me. Perché forse, ancora adesso, non ho capito fino in fondo che forma abbia la vostra guerra. Forse, come un pessimo stratega, non ho saputo prevedere le mosse da portare in battaglia, le parole giuste da dire, i momenti preziosi da valorizzare.

Non ci ho capito niente.

Come posso, io, intendere veramente cosa significhi uscire da questa malattia, quante energie canalizzate e poi disperse per colpa di una fragilità troppo primitiva e incastrata come scogli nel mare, che non dà spazio a nuove forme di pensiero, ad una personalità forte che sappia dire “No, adesso basta” e che sia possibile tradurre in una nuova vita.

Non ci ho capito niente.

Come devo comportarmi di fronte all’ennesimo fallimento? Al centesimo ragazzo che il giorno prima si siede sulla sedia più alta, prendendosi la responsabilità di guidare e condurre i fratelli minori tra le insidie del programma, e la mattina dopo, come fosse una partita al campetto tra amici, smette di giocare perché stanco? Com’è possibile?

Non ci ho capito niente.

E allora, in questo conflitto quotidiano mi ci immergo pure io. Perché in questa guerra, come piace chiamarla a voi, ci stiamo tutti dentro, ognuno di noi ha un ruolo e una posizione importante per determinare i giochi, bagnarsi della verità e trionfare mostrando a tutti con fierezza la testimonianza di un corpo e uno spirito che hanno saputo modificare il loro esistere. Mi ci metto anche io, e mi carico in spalla tutte le inadempienze, le paure, i dubbi più indecifrabili, gli errori che un mondo fatto di relazioni può portare, l’incertezza e l’impotenza dell’essere umano di fronte agli errori dei suoi fratelli. Mi carico tutto questo e lo porto nel cammino insieme a voi, perdonatemi, quindi, se non saprò rispondere alle vostre domande, se non saprò essere custode delle vostre sofferenze. Anche io faccio fatica a capire, e non voglio avere la pretesa di sapere, ma voglio costruirmi una coscienza insieme, in mezzo a questa guerra, fatta di fatiche e bugie, cadute e risalite, forze e debolezze.

L’unica cosa certa, l’unica cosa di cui mi sento padrone indiscusso è che tutto questo è “giusto e necessario”. Che un’azione di aiuto, di servizio consapevole, di nonviolenza in senso lato, di condivisione totale aiuta a formare e integrare uomini e donne, anche se distanti fisicamente e culturalmente, nel grande progetto di migliorare questo bellissimo mondo, partendo dall’unione di uomini e donne che lo vivono. Io con voi e voi con me.
Perché come disse Gandhi all’interno della satyagrahi (nome dato alla ricerca della verità mediante pratiche di nonviolenza) bisogna condannare il peccato e non il peccatore, amare profondamente la persona che fa una cosa ingiusta, e applicare le tecniche della nonviolenza perché anche la stessa persona possa riconoscere i suoi errori. Un’impresa da costruire insieme.

Grazie Ale per tutti i momenti passati insieme, spero tu possa trovare pace tra le stelle del cielo. Nella tua innocua semplicità mi hai insegnato a vivere con umiltà, ad amare di più e a non smettere di riflettere e continuare a farmi domande, a cui rispondere insieme nell’eterna ricerca della verità.

Gracias, Hermano.

Nicolò

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