Caschi Bianchi Filippine

 Bagong bayani – Nuovi eroi

Mara ci racconta la storia di Lilibeth… una storia  di emigrazione, di lotta per cercare il proprio posto in un mondo che non sempre offre le stesse opportunità a tutti… Dalle Filippine al Medio Oriente: Taiwan, Libano ed Emirati Arabi… 9 lunghi anni di compromessi e sofferenza fino al tanto desiderato ritorno a casa, dove ora è presidente di un’associazione femminile… Una storia comune nelle Filippine moderne in cui circa il 10% della popolazione è costituita da questi “nuovi eroi”, costretti ad emigrare alla ricerca di un futuro migliore.

Scritto da Mara Grimaldi, Casco Bianco con Caritas Italiana a New Guia

Lilibeth è stata una delle prime donne che ho conosciuto qui nelle Filippine.
Ero arrivata da poco più di una settimana e quel giorno visitavo per la prima volta un villaggio, un Barangay, nella lingua locale. New Guia, a circa un’ora da Roxas City, Capiz. Questa comunità di circa 2000 persone è rientrata nel progetto SearchDev, finanziato da Nassa – Caritas Filippine e da maggio 2017 lo staff di Casac viene in visita qui portando idee di unione e messaggi di comunità che sono stati accolti positivamente dalla popolazione locale.
Scesa dal van, la prima persona a venirmi incontro è proprio lei, Lilibeth.
Nata qui, qualche casa più giù, il 26 luglio 1967.
Ha 52 anni, va fiera della sua età, la ripete spesso.
Il suo inglese è buono e dato il mio stupore mi spiega che parte della sua vita l’ha passata all’estero. Taiwan, Libano e Emirati Arabi. Orgogliosa mi elenca anche alcune frasi che ha imparato di arabo. Il mandarino invece lo parla fluentemente.
Mi racconta divertita di come per la prima volta è scesa dall’aereo a Taiwan e ad aspettarla c’erano i suoi futuri datori di lavoro.

– A Taichung, Taiwan, ho fatto da badante a questa coppia, un uomo e una donna intorno ai 65 anni che non parlavano neanche una parola di inglese. Riderai di me ora: c’era questo signore che all’aeroporto mi viene incontro e mi fa lai! lai! lai! Sai, qui nelle filippine Lai è un nome di donna quindi io mi sono guardata intorno e dentro di me mi sono chiesta “e adesso chi è questa Lai?” L’ho capito solo dopo qualche mese che lai in mandarino significa “sbrigati”. All’inizio pensavo solo non avessero capito il mio nome.

Lilibeth ha fatto parte di quella categoria di Filippini che chiamiamo Overseas workers.
Lavoratori oltremare. La scelta del nome è facilmente intuibile se si guarda una mappa delle Filippine.

– A Taiwan sono stata due volte, per un totale di 6 anni. Poi in Medio Oriente per 4 anni. Libano e Emirati Arabi. In Libano ci sono arrivata grazie a un amico. Mi ha ospitato e mi ha trovato un lavoro. Solo poi ho richiesto un visto.

Se ne vergogna un po’ e ride imbarazzata. Poi torna subito seria e continua la spiegazione.

– Sai, perché qui normalmente funziona così: tu vai all’Overseas labor Office o un’altra agenzia qualsiasi e quelli ti trovano un lavoro. Si prendono cura loro di tutte le pratiche burocratiche, tu devi solo trovare il coraggio di partire. Se hai già esperienze all’estero ovviamente è più facile ti prendano. Come quando sono andata ad Abu Dhabi ad esempio, è stato quasi immediato per me, perché tra Taiwan e Libano avevo già passato quasi otto anni fuori dal paese. Anche della lingua avevo già qualche conoscenza, per cui l’agenzia non doveva spendere troppo tempo o denaro per educarmi. In genere però sono richiesti tanti anni di studio e molte capacità per essere selezionati. Una cosa per pochi.

Non sono proprio pochi, a dire il vero. Le statistiche dicono che non c’è famiglia filippina che non abbia almeno un parente all’estero. Chi in Medio Oriente, chi in Europa, chi negli Stati Uniti o nei più vicini paesi asiatici.

Circa 7 milioni di filippini, pari quasi al 10 per cento dei 76,5 milioni di abitanti, sono emigrati. Secondo alcuni studi del 2015, ogni anno 913,958 dei OFW (Overseas Filipino Workers) emigra in Medio Oriente, 399,361 in Asia, 29,029 in Europa e 17,234 in America. In Europa, sono l’Italia e il Regno Unito, le principali destinazioni. Nel 2015 risultano esserci 169,046 filippini residenti in Italia. Sono la comunità non Europea più grande nel paese.
Il primo a volere una legge sull’emigrazione è stato Ferdinand Marcos nel 1975. Erano gli anni del petrolio e i Paesi del Golfo avevano bisogno di manodopera di ogni tipo. Il primo accordo fu siglato proprio con l’Arabia Saudita, e da allora lo Stato sovrintende a circa 1400 agenzie private di collocamento che non si limitano a trovarti un lavoro: ti preparano sia al nuovo lavoro sia, soprattutto, al nuovo Paese.

– Ad Abu Dhabi lavoravo in una pasticceria. Avevamo degli orari assurdi, soprattutto durante il Ramadan. Dovevo arrivare alle 9 del mattino e restare fino alle 6 del mattino dopo. Dormivo due ore a notte. Mi sono ammalata e sono finita in ospedale. Sovraffaticamento è stata la diagnosi. Non sapevo neanche potesse esistere una malattia del genere. Avevo la pressione del sangue a 220 su 120. La mia coinquilina, filippina anche lei, è stata l’unica a venirmi a trovare mentre ero in ospedale. Non avevo altri amici, non ne avevo il tempo. Lei veniva, mi portava il cibo e se ne riandava subito. Se avessi mangiato il cibo dell’ospedale mi sarei ammalata di nuovo probabilmente. Poi gli arabi hanno delle regole tutte strane. Mangiano solo pollo, pesce e tofu.

Sottovoce mi confessa che in realtà a lei piace solo il cibo che cucina lei. Ride.
Durante il nostro primo incontro io e Lilibeth abbiamo cucinato insieme, mi ha insegnato ad uccidere e spennare una gallina per poi avvolgerla con cura in delle foglie di banana insieme a varie spezie e aromi. Il risultato è una zuppa tipica della zona che si chiama Tinuom.

Quel giorno nell’aula del Barangay Hall affianco alla cucina, si svolgeva un orientation sui Self Help Group (SHeG) organizzata da Casac per la Women’s Association di New Guia. Gli SHeG sono dei gruppi di auto-aiuto, composti di persone che non hanno accesso a crediti bancari o altre forme di prestiti economici. Provengono dalla stessa comunità, hanno lo stesso background socio – economico e si aggregano su base volontaria per depositare regolarmente piccoli contributi di risparmio, fin quando non vi è abbastanza capitale nel gruppo per avviare dei prestiti.

Mentre lo staff di Casac spiegava tutto questo alle donne della Women’s Association, io ero in cucina con Lilibeth che mi parlava di quando ad Abu Dhabi ha imparato a fare il pane.
Dopo quella prima visita, a New Guia ci sono tornata ad ogni occasione possibile. Lilibeth era sempre lì, la prima a sorridermi e venirmi incontro. A ottobre 2017 è stata eletta presidente della Women’s Association. Quaranta donne della comunità ne fanno parte. Un solo uomo.

– All’inizio non volevo saperne di partecipare. Non ci venivo ai meeting. Poi un giorno padre Packing è riuscito a convincermi ed è stato proprio durante quell’incontro che si è stabilito l’organigramma. Io mi stavo nascondendo qui in cucina quando ho sentito chiamare il mio nome. Alla fine mi sono lasciata convincere a fare da presidente. Ora ne sono felice. Mi sento apprezzata dalla comunità e sono ancora più felice di rendermi utile. Non è sempre facile. Ho tante responsabilità e tutto ciò che succede è un mio problema da risolvere. Spesso è difficile anche far partecipare tutti agli incontri. Come oggi ad esempio, voi siete arrivati, ci avete portato tutti gli ingredienti per fare il pane ma ad accogliervi non c’è nessuno. Sono tutti in montagna per le ultime due settimane di raccolta del mais e non posso biasimarli, devono lavorare. Qui però c’è la margarina e il lievito ed è tutto fresco e se non impastiamo, andrà tutto sprecato. Uno dei miei ruoli da presidente è anche quello di essere un esempio per tutti gli altri membri. Come la puntualità. Quando ad esempio arrivate voi, io devo essere già qui, per accogliervi come si deve. Qui invece tutti arrivano tardi. Seguono l’orologio filippino. So già che se l’appuntamento è alle 8, arriveranno alle 9, e non c’è modo di fargli capire quanto è importante rispettare la parola data.

Si scambia un’occhiata con Rubi che è seduta affianco a me e sorride imbarazzata. Stamattina ha fatto mezz’ora di ritardo anche lei.

– Sono stata all’estero per 9 anni. Sono stati lunghi e non è stato per niente facile. Mi sono spesso sentita molto sola. Ho passato mesi a piangere tutte le notti. I miei bambini erano piccoli e li stava crescendo mia mamma. Quando ho lasciato casa per la prima volta avevo ventinove anni e mio marito era morto appena un anno prima. Non penso di essermi mai sentita tanto sola e indifesa in vita mia. Ce l’ho fatta però. Sono sopravvissuta e sono tornata a casa. E la cosa che mi rende veramente felice è che sono riuscita a far studiare tutti e 5 i miei figli.

Mi elenca orgogliosa cosa fanno di mestiere i figli, se sono sposati e dove si trovano ora. Nessuno di loro ha fatto esperienze all’estero né ha intenzione di farne. Di tutta la sua famiglia lei è stata l’unica ad essere stata una OFW. Un bagong bayani, nuovo eroe. Vengono chiamati così dai connazionali rimasti in patria.

Lilibeth ora è a casa, in inglese si dice “for good”, che tradotto letteralmente dall’inglese, significa per bene. Non c’è espressione più appropriata.

– Ora che sono tornata a casa ho sempre molto da fare, faccio fatica a stare ferma. Mi piace il mio ruolo nella comunità. Insegno ciò che ho imparato e condivido le mie esperienze. Come fare il pane, ad esempio. Far vedere come si impasta la farina insieme a tutti gli altri ingredienti. L’associazione è un buon punto di unione per tutti noi. Se ci sosteniamo a vicenda e condividiamo le nostre esperienze possiamo essere più forti.

Oltre ad essere presidente della Women’s Association di New Guia, Lilibeth gestisce progetti di livelihood a Maayon (la municipalità di cui fa parte New Guia) ed è un Barangay Help Worker (BHW), un collaboratore del Barangay.

– Sono tutte attività extra, non pagate, ottieni solo un bonus in base al guadagno complessivo della comunità a fine anno. Quindi lavoro nei campi come tutto il villaggio. Alla fine sono solo una contadina. Infatti guarda quanto sono “morena”?

Si indica la pelle e avvicina il suo braccio al mio. Un gesto che in occidente siamo abituati a fare per confrontarci l’abbronzatura.

– Non bella come te.

Cerco di farle capire quanto invece invidio il suo essere morena. Lei mi guarda come se fossi stupida.
E forse fa bene.

Da quando sono arrivata qui nelle Filippine, circa 3 mesi fa, c’è una cosa che osservo curiosa quasi ogni giorno. Vivere nel terzo mondo significa (anche) avere la casa invasa dalle formiche. Queste piccole creature creano una fila ordinata e composta dalla loro tana verso qualsiasi forma di cibo lasciato incustodito in casa. Nonostante i miei mille tentativi di distruggerle, trovano sempre la via per ritornare. Non c’è trappola o chimico che abbia provato, ad averle eliminate definitivamente. Nel giro di mezza giornata riescono a riorganizzare i loro flussi. Ritrovano subito un posto da chiamare casa e fiutano altre fonti di nutrimento. Arrivano ovunque, ieri ho dovuto buttare un intero pacco di riso ancora sigillato. Non capisco proprio come abbiano fatto ad infilarsi sotto la plastica. Mi danno fastidio, mi rubano il cibo. Eppure ho capito che nonostante io cerchi sempre un nuovo modo di liberarmene, loro riusciranno comunque a sopravvivere e tornare. Non c’è una vera e propria soluzione. Né per loro, né per me.

Dopo aver ascoltato la storia di Lilibeth, ogni volta che vedo quella striscia nera muoversi sulla parete affianco al mio letto, non riesco a non ammirare la caparbietà e la resilienza con cui affrontano il tragitto e seguono la rotta verso la sopravvivenza. Lilibeth invece alla mia età non passava il tempo a fissare le formiche. Stava imparando ad accettare il fatto che a volte essere madre significa non veder crescere i propri figli e che amare il proprio paese significa abbandonarlo.

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