“You crazy, my friend”: è questo il motto della Neos Kosmos Social House di Caritas Hellas, nel cuore di Atene, un ritornello pronunciato in un inglese stentato che rimbalza di bocca in bocca sui sorrisi di tutti, dagli adulti ai più piccoli. Ed è quello che deve aver pensato anche mia madre – in italiano però – quando quest’estate le comunicai che sarei partita per fare un anno di servizio civile in Grecia. E che proprio io, così profondamente attaccata alle mie radici e al mio territorio, avevo deciso di lasciare una vita che sembrava ormai stabilmente incanalata nel suo binario: il mio lavoro come supplente di sostegno nelle scuole biellesi per cercare di guadagnarmi faticosamente ogni anno qualche punticino in più in quella lotta del “tutti contro tutti” che sono le graduatorie scolastiche; il mio impegno decennale nel presidio di Libera Biella; la mia passione per la musica e il mio legame con il mio gruppo folk in cui suono la chitarra; la mia famiglia, il mio ragazzo, i miei amici.
Eppure, da quando capitai ad aprile dello scorso anno a Neos Kosmos per una study-visit di un corso organizzato da Caritas, ho sentito il bisogno forte di tornare ad Atene, la sensazione che lì ci fosse qualcosa per me, un’esperienza da cui dovevo assolutamente passare per crescere. E questo significava rimettere in discussione me stessa: avevo bisogno di deviare dal binario saldo della mia vita a Biella per salire su quel “treno in corsa” che è Neos Kosmos, come l’ha definito Elena, un’operatrice. Non è stata una scelta facile, soprattutto nel trovare una risposta a chi prima della partenza mi chiedeva: “A che cosa ti serve quest’esperienza di volontariato per la tua professione di insegnante?”. Eppure sono fermamente convinta della mia decisione, e la risposta a questa domanda emerge giorno dopo giorno, sempre più articolata e complessa, dall’incontro con le persone. In particolare sono due gli aspetti che sento più forti di questa esperienza e che mi porterò dietro nel mio bagaglio di esperienze che “servirà” per la mia crescita professionale.
La prima è che il senso del volontariato ad Atene è innanzitutto relazione: ciò che ho imparato fin da subito stando qui è che la ricchezza più grande, soprattutto quando si decide di lasciare la propria casa e partire per lungo tempo, sono le amicizie. Sembra scontato e banale dirlo, ma ciò che fa la differenza in termini di qualità della vita tra i tanti migranti che incontro è quello che nelle scienze sociali viene chiamato il “capitale sociale”, quella rete di relazioni di solidarietà che fa da cuscinetto agli imprevisti e alla difficoltà della quotidianità. C’è una forte fame di relazioni e la naturalezza con cui si stringono amicizie, soprattutto fra i bambini, è straordinaria e affascinante. E a mio modo di vedere è questa tendenza verso l’altro che dovrebbe essere la prima capacità di un insegnante: in questo senso qui ho molto da imparare, dai bambini in primis.
In contesti protetti come la Neos Kosmos Social House o la Chiesa Armena l’incontro e la condivisione nascono dalle cose più semplici, come il cibo – ogni scusa è buona per mettersi a tavola tutti insieme – o le danze siriane che non possono mancare alla cena comune del venerdì sera. E poi ho percepito sin dall’inizio un forte senso di famiglia: ho notato infatti che gli adulti, benché secondo me lascino talvolta fin troppe libertà ai figli, in realtà prestano attenzione e si prendono cura di tutti i bambini, non solo dei propri. Ma soprattutto la solidarietà passa attraverso l’ascolto e lo scambio di storie: la condivisione del comune desiderio di raggiungere la propria meta europea da un parte e la frustrazione di essere bloccati in Grecia dall’altra; il sogno ad occhi aperti di un futuro ricco di soddisfazioni e la paura di essere fermati in aeroporto dalla polizia greca.
E questo mi porta al secondo aspetto rilevante della mia esperienza di volontariato: l’importanza, fondamentale come l’aria, dell’inclusione. È questo, secondo me, il valore più “europeo” che un insegnante possa trasmettere ai suoi alunni per crescere una generazione diversa, per costruire un’Europa diversa. Sento un profondo senso di ingiustizia quando i ragazzi ospitati in Chiesa Armena, alla domanda “Hello my friend, how are you?”, mi rispondono “I am sad”. Non è giusto. Perché anche loro come me hanno tanti sogni per il proprio futuro, ma al contrario non sono liberi di realizzarli. E la differenza sta solamente nel fatto che io ho una carta d’identità italiana e loro un passaporto siriano. E mentre io sono libera di spostarmi dove voglio, sapendo che posso sempre tornare al sicuro dalla mia famiglia, nel mio paese, loro sono stati costretti a lasciare il proprio per sfuggire alla leva militare in una guerra folle e a dipendere da trafficanti senza scrupoli nel loro viaggio verso un paese europeo sicuro e in grado di offrire loro delle opportunità per il futuro. Trovo assurdi e paradossali tutti i discorsi pre-viaggio, se la foto sul passaporto falso sia abbastanza somigliante, o se la camicia che hanno scelto per il viaggio sia adeguata, né troppo elegante né troppo sciatta, o se il loro taglio di capelli li faccia sembrare più “europei”. E poi le battute spiritose sulla polizia in aeroporto e le risate per sdrammatizzare la delusione di non avercela fatta a eludere i controlli e raggiungere la terra promessa per l’ennesima volta… la quinta, la sesta, la settima, addirittura c’è che chi ci ha provato più di una dozzina di volte. Perché le persone sono costrette a questo?
Ritorno quindi al punto di partenza: sono assolutamente convinta che il primo valore che si debba insegnare a scuola sia quello dell’inclusione e che la scuola stessa debba farsi esempio. In questo senso penso che le scuole greche – e quelle italiane non sono da meno – abbiano ancora molta strada da fare: dalla mia attività di doposcuola nello shelter del quartiere di Kallithea ho scoperto che gli insegnanti a scuola non prevedono programmi appositi per l’integrazione degli alunni rifugiati in Grecia e di conseguenza per questi ultimi, lasciati a seguire le lezioni senza l’aiuto di alcun mediatore, l’apprendimento è molto più faticoso. Una fatica che emerge lettera dopo lettera, quando si impegnano con meticolosa precisione e instancabile tenacia a delineare a matita – loro non hanno le penne colorate come i miei alunni italiani – i segni di un alfabeto così diverso dal loro.
A tutto questo penso che serva la mia esperienza di volontariato: per far crescere me stessa, per aiutare come posso qui ad Atene, per dare il meglio agli alunni che incontrerò in futuro e per fare della mia professione la mia piccola e personale battaglia per un’Europa diversa, basata sulle relazioni e sull’inclusione prima che sulle banche e i passaporti.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!