Corpi Civili di Pace Ecuador

Uno sguardo oltre il kitsch

Quando si parla di Nonviolenza, spesso si rischia che il concetto venga interpretato con un’accezione semplicistica e fuorviante. Molti attribuiscono all’idea della Nonviolenza quella sfumatura buonista, perbenista, a tratti ipocrita e fatta di apparenze, tipica del kitsch su cui si omologa sempre di piú questa societá globalizzata.

Scritto da Giovanni Candeloro, Corpo Civile di Pace con FOCSIV/CESC Project ad Ibarra

Mi piace la definizione che Milan Kundera da del kitsch: un ideale estetico che elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile. Per questo nell’arte il kitsch si riduce ad un’imitazione sentimentale superficiale, patetica, priva di originalità e creatività.

Bé, la Nonviolenza autentica poggia esattamente su basi opposte. La Nonviolenza non é la comunicazione politically-correct, non é l’educazione verbale, tantomeno l’altezzosa condanna a priori di comportamenti aggressivi, inaccettabili. La Nonviolenza é ricerca. É un processo che inizia dalla curiositá, supera le proprie zone di comfort, aggira i pregiudizi, azzarda l’empatia e continua a chiedersi perché.

E di solito, é sempre lo stesso. Di solito, il perché di ogni situazione conflittuale é il mancato riconoscimento di chi si ha di fronte, il rifiuto di vederlo, osservarlo e capirlo, l’attribuirgli l’etichetta di inaccettabile per estrometterlo dal campo visivo.

Da quando sono Corpo Civile di Pace in Ecuador, ho perso le staffe varie volte. La volta piú futile e meno importante é avvenuta con queste stesse dinamiche, in un’edicola di una grande città. Da biondo con gli occhi azzurri, in Sudamerica non sfuggo all’appellativo di gringo (statunitense). Per strada, la gente mi si rivolge in Inglese e non di rado, continua a rivolgersi in Inglese anche dopo avergli risposto in Spagnolo di essere italiano. Non sono un grande appassionato della cultura anglosassone, e ammetto di provare un prurito fastidioso ogni volta che sguardi semplicistici e poco curiosi mi appiccicano addosso l’etichetta in cui non mi riconosco assolutamente. Quell’edicolante, eccitato dal mio biondore, non ha ascoltato per tre volte la mia solita formula: – prefiero que me hables en Español, por favor -. Dopo la quarta, mi sono lasciato andare ad una veemente filippica contro l’imperialismo culturale statunitense e contro chi non riesce a guardare oltre le apparenze.

Questo minuscolo episodio di vita quotidiana, sintetizza l’ambiente in cui agisce il mio servizio di Corpo Civile di Pace. Collaborando con varie organizzazioni, Gloria ed io siamo quotidianamente immersi nel microcosmo dei rifugiati colombiani ad Ibarra (Nord dell’Ecuador), un microcosmo permeato all’inverosimile e su vari livelli da pigrizie intellettive, etichette, pregiudizi, cecità, non riconoscimenti e quindi, conflitti.

A livello sociale, nel cuore della timida e riservata cultura andina ecuatoriana, la vitalità e l’espansività tipica colombiana quasi mai viene interpretata come tale, e “colombiano” diventa subito sinonimo di sgarbato, casinista, violento, criminale, pericoloso, narcotrafficante, indecente, inaccettabile.

La nonviolenza è innanzitutto guardare dove il kitsch non vuole guardare. Convinti di ciò, abbiamo voluto concentrare la nostra attenzione su queste storie inaccettabili, per scalfire un minimo il muro del kitsch che impedisce a troppe persone, istituzioni e organizzazioni, di riconoscere la realtà umana che vive ogni migrante. Tra le varie attività quotidiane, abbiamo raccolto più testimonianze possibili, video, interviste, questionari.

I 350 questionari raccolti nei primi sei mesi di servizio, forse non sono un campione rappresentativo del fenomeno migratorio in sé, ma restano pur sempre 350 punti di vista a cui vogliamo dare rilevanza. I primi dati estrapolati, da subito, gridano rivendicazione di fronte alle apparenze dominanti.

All’apparenza, da circa un anno, in Colombia non c’é piú la guerra (gli Accordi di pace tra il governo e le FARC risalgono al novembre 2016). Ne consegue, secondo un’interpretazione semplicistica ma comunque dominante a livello politico-istituzionale, che i colombiani che arrivano in Ecuador non si possono piú definire rifugiati, nè trattarli come tali.

Dei colombiani intervistati, la metà è emigrata dopo la firma degli Accordi. La stragrande maggioranza di chi è emigrato dalla Colombia “pacificata”, è stata costretta a “lasciare casa in maniera improvvisata”, senza programmare la partenza, fuggendo; dichiara che non si sentiva sicuro in Colombia e che i propri diritti non venivano rispettati. Tre quarti di loro dichiarano che lasciare il Paese è stata una decisione forzata, mentre un terzo di essere stato personalmente perseguitato. Non sono esattamente proporzioni che descrivono un contesto pacifico e sicuro, per cui si debbano negare i diritti di rifugio a chi fugge.

All’apparenza, l’Ecuador ha un ottimo sistema di accoglienza per i rifugiati. Più volte plaudito a livello internazionale come uno dei paesi più accoglienti. Eppure un colombiano su tre degli intervistati crede che l’ecuatoriano comune sia poco accogliente, sfiducioso o troppo chiuso in se stesso; sempre uno su tre, non si sente in una situazione di sicurezza, non si sente protetto nemmeno in Ecuador. Solo il 20% dei colombiani intervistati ha lo stato di rifugio riconosciuto e la percentuale scende al 6% se consideriamo solo quelli emigrati nel periodo post-accordi di pace.

Ma questi dati, anche se svelano realtà insondate e per lo più ignorate, restano numeri e dati che in quanto tali rappresentano il linguaggio preferito dal kitsch, un linguaggio che permette la formalità distaccata di chi non vuole sorpassare il nozionismo scientifico e il politically-correct.

Un padre colombiano, appena fuggito con tutta la famiglia per proteggere il figlio da un minacciato rapimento, ci ha confessato che la cosa peggiore della loro condizione non è stata tanto il dover abituarsi al nuovo ambiente, affrontare le impellenze pratiche relative alla loro condizione, nemmeno l’aver dovuto abbandonare la rete sociale di appartenenza, quanto bensì la profonda umiliazione subita e incisa per sempre nelle loro personalità. “Di fronte a queste persone che hanno capitale, soldi, armi, persone, uno realmente si sente come un coniglio, e non fa mai bene.”

Queste confessioni hanno la capacità di giungere dove qualsiasi dato statistico non può arrivare, nella dimensione che più di altre ci rende capaci di restare umani, di provare empatia e di rimodellare con essa la nostra percezione della realtà: la dimensione sentimentale.

Anche se nella loro forma di numeri e percentuali, abbiamo comunque voluto inserire questa dimensione nella nostra ricerca. Abbiamo chiesto a questi inaccettabili di dirci quali sentimenti provano quando pensano alla propria condizione di migranti. La speranza domina su tutti gli altri sentimenti, ottenendo il cuore del 63% degli intervistati. E sperando che non sia stato per una questione di kitsch, è rassicurante constatare che nessuno dei 350 violenti e inaccettabili intervistati si sia dichiarato vicino a un desiderio di vendetta, rancore o collera.

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