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Caschi Bianchi Gibuti

I miei primi tre mesi di Gibuti

“Disponibilità”, “esserci”, “ascolto” e “sospensione del giudizio” sono le quattro parole chiave individuate da Elena volontaria in servizio civile a Gibuti con Caritas Italiana. Attraverso queste parole Elena ci racconta i suoi primi mesi all’interno del progetto che la vede coinvolta in un centro diurno e nelle scuole a sostegno dei bambini di strada.

Scritto da Elena Baglietto, Casco Bianco Caritas Italiana a Gibuti

Gibuti è un mondo che mi ha affascinato fin dal primo momento in cui sono arrivata perché da scoprire, perché ogni angolo e ogni storia è qualcosa da approfondire, qualcosa da conoscere e non ci si annoia mai. Vivere a Gibuti per me non è solo un lavoro, è una scelta di vita, è un’evoluzione, è qualcosa che ogni giorno mi fa pensare a piccole cose a cui mai avevo pensato.

Il lavoro che faccio, in parte è quello per cui ho studiato tre anni, ovvero servizio sociale, e metterlo in pratica in libertà, con il supporto di tutto lo staff mi rende felice. Il progetto di Caritas Italiana a Gibuti si suddivide principalmente in due parti: la prima consiste nel sostegno ai bambini di strada attraverso un centro diurno e nell’ascolto delle persone che chiedono un aiuto a Caritas Djibouti. In particolare, per quanto riguarda il centro in questa sede i bambini possono entrare quotidianamente, hanno la possibilità di usufruire della prima colazione e del pranzo; all’interno della giornata si svolgono diversi laboratori di alfabetizzazione, di abilità manuale, è presente una sala video dove i bambini possono riposare al chiuso e ogni giorno è aperto un servizio di infermeria. Si tratta, per la maggior parte, di minori stranieri, etiopi o somali che vengono a Gibuti lasciando la famiglia al loro paese di origine e si ritrovano in una situazione di difficoltà. Per quanto riguarda l’ascolto dei poveri è una parte del progetto che gestisco autonomamente con il supporto di un’interprete e del Direttore nel momento della valutazione finale.

La seconda parte del progetto invece si svolge lavorando all’interno delle scuole LEC (lire, ecrire, compter) ovvero scuole per bambini che non possono accedere alla scuola pubblica per problemi legati all’assenza della carta d’identità gibutina poiché provengono dall’Etiopia, dalla Somalia e dallo Yemen. In queste classi gestisco un corso di ginnastica, un corso di inglese e un corso di informatica usufruendo dei computer donati dall’UNICEF.

In questi tre mesi ho individuato alcune parole chiave per questa mia esperienza di Servizio Civile.

Una parola tipica di ogni giorno, di ogni mattina in cui mi sveglio è DISPONIBILITÀ. Bisogna essere disponibili non solo sul lavoro ma anche nella vita quotidiana, ad accettare le differenze di cultura, incomprensioni e cambiamenti che non si riescono a comprendere, a non avere programmi o ad averli ma cambiarli, da un momento all’altro senza preavviso e senza rammarico; ad ascoltare senza farsi però sopraffare dalla volontà di risolvere.

La seconda parola chiave è ESSERCI. Per me esserci è tutto ciò che importa, esserci nel senso vero della presenza fisica e mentale sul pezzo, esserci non solo fisicamente ma esserci con la mente, non farsi sopraffare dalle emozioni, immagazzinarle, maturarle e poi farle uscire ponderandole alle diverse situazioni. Si esce da una baracca dove dormono sei persone per terra nella terra e nella lamiera e il cuore fa male, è normale che faccia male, ma si è al lavoro e si deve essere forti, e non si pensa a piangere ma al fatto di avere o non avere le risorse per aiutarli, si pensa a quante persone si trovano in quella situazione e si pensa che in parte si vorrebbe denunciare tutto questo. Non denunciarlo alle autorità locali, ma all’Europa, facendo vedere a partire dai più piccoli che la nostra vita è bella, che abbiamo il privilegio di stare bene nonostante abbiamo le nostre difficoltà che per noi sembrano gobbe di cammelli insormontabili.

Esserci a Gibuti perché mi sta dando più consapevolezza del valore che do e darò alle cose a casa, nel mondo dove sono nata e cresciuta senza pensare al privilegio che possiedo. Esserci per far sì che anche gli altri possano capire che noi abbiamo tutte le opportunità per essere felici e che invece ci lamentiamo, esserci per convincere il maggior numero di persone possibili che bisogna diminuire le nostre lamentale futili, le prese in giro, le frivolezze che pensiamo essere macigni.

Il rischio di lavorare con persone africane in determinati contesti è quello di diventare indispensabili ed è difficile da evitare.

La terza parola chiave è quella dell’ASCOLTO. Ascoltare per me significa allo stesso tempo conoscere. Tramite l’ascolto riesco a scoprire cose nuove, a entrare in contatto con la persona dandole lo spazio di mostrarmi ciò che desidera, riesco ad avere risposte a domande che mi pongo dentro di me, a entrare in contatto con un mondo che per molti aspetti è completamente diverso dal mio.

Ascoltando l’altro si riesce ad ascoltare anche le emozioni che questo suscita in noi. Non bisogna mai dimenticarsi di ascoltare, non solo gli altri ma anche se stessi. Ascoltare se stessi è qualcosa di magico, è leggere le nostre emozioni, le nostre reazioni attraverso i nostri stessi occhi. È indispensabile quando vivi in un turbinio di eventi e in un ambiente differente dal proprio leggere le proprie emozioni, leggendole si può fare una valutazione personale, si può sorridere o piangere, si può migliorare o pensare ad un cambiamento.

Infine ho individuato una quarta parola: la SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO. Sospendere il giudizio è indispensabile quando si è in un contesto culturale differente dal proprio, dove si appartiene alla minoranza, spesso sconosciuta. Sospendere il giudizio è mettersi in gioco e approfondire la conoscenza, continuare a scoprire e non fermarsi alla prima apparenza, non fermarsi alla prima immagine. Sospendere il giudizio permette di costruire lentamente e con maggiore attenzione un giudizio più costruito e approfondito. Se si evita la sospensione del giudizio si rischia di essere approssimativi, di sottovalutare e di generalizzare. Se si evita il pregiudizio si può costruire una rete relazionale e culturale dalle maglie più strette senza cadere in banalità e preconcetti.

Nel complesso Gibuti è un paese molto particolare, dove le contraddizioni regnano sovrane: dove i bambini di strada vivono in mezzo a grandi ville o in piccoli quartieri dove le case sono esclusivamente costruite in pareti di lamiera e legno. La contraddizione a Gibuti regna sovrana e entra a far parte della tua quotidianità. Gibuti è diventata la mia casa e io già mi sento a casa, dove tutte le persone sono i miei vicini.

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